National Geographic Italy - 03.2020

(Jacob Rumans) #1

Non avevo mai sentito parlare della Yukon Quest o


della sua gemella americana, la più famosa Iditarod.


Pensando all’Artide - se mai mi capitava di farlo -

mi immaginavo esotici animali in via d’estinzione


e luoghi freddi e distanti, fuori dalla mia portata
come fotografa. Mio padre era un produttore tea-
trale di New York. Le lezioni di vita le ho imparate
dietro un palco, non dietro un fucile.
Nonostante questo, era strano che l’Artide mi

mettesse soggezione. Tra i 20 e i 30 anni, ho passato


la maggior parte del tempo a fotografare conflitti e


drammi sociali in Medio Oriente, Africa e America


Latina. Poi nel 2011 sono stata protagonista di una
storia - una tragedia - in cui le vittime erano i miei

colleghi e io ero la sopravvissuta. In seguito faticavo


a trovare l’ispirazione necessaria per ritrovare l’a-
more di un tempo per la fotografia. Ho continuato

a lavorare, ma spesso lo facevo in modo automatico.


Così nel 2014 ho accettato di fotografare la Yukon


Quest senza sapere cosa aspettarmi. Pochi giorni
dopo ero su un volo per il Canada. Siamo atterrati
a Whitehorse verso mezzanotte, la pista era rico-

perta di neve. Solo toccando il finestrino dell’aereo


sentivo l’aria ghiacciata. Ero arrivata al Nord. I
miei bagagli invece no. Dentro c’era tutto quel che

pensavo potesse servirmi, incluso un paio di panta-


loni da sci, troppo grandi, che mi ero fatta prestare,


calzamaglia termica e un caldo e costosissimo parka


nuovo di zecca. Teoricamente dovevo prendere un


volo da Whitehorse a Dawson City per fotografare
la corsa il mattino dopo e tutto quel che avevo era
una felpa grigia col cappuccio e uno zaino con la
mia apparecchiatura fotografica.
In aeroporto ho spiegato la mia situazione alle
due donne al desk della Air Canada. Una di loro è
sparita sul retro. È ricomparsa con un cardigan di
lana blu della Air Canada. La seconda ha chiesto
al marito di portarle degli stivali e una giacca. Mi
ha prestato il suo piumino grigio, gli stivaletti col
pelo che indossava e un paio di caldi guanti rossi.
Era ancora buio quando sono salita sul volo per
Dawson City. Quando finalmente è sorto, il sole
ha illuminato imponenti catene montuose, cime

frastagliate color beige e rosa acceso, colossi grigi e


neri. Non avevo mai visto un paesaggio così magico


e ho scattato foto attraverso il finestrino, finché è
calata una fitta nebbia.

Quando sono scesa a terra, la neve scricchiolava


sotto i miei pedi. Nel tragitto verso l’hotel sono
rimasta in religioso silenzio ad ammirare i monti
tinti di viola e i fiumi ghiacciati ricoperti da un
mosaico di ghiaccio bianco e blu. L’intera foresta
era ammantata di quella che mi sembrava brina
scintillante. Più tardi ho scoperto che si chiama

calaverna. Non l’avevo mai vista prima. Mi sentivo


catapultata in un altro mondo, in una favola. A volte


vorrei tornare indietro nel tempo solo per rivivere
le mie prime ore a Dawson City.
Nel frattempo il freddo si è rivelato essere tanto

atroce quanto il panorama meraviglioso. All’aperto


ALCUNI ANNI FA mi venne proposto un incarico
dell’ultimo minuto: dovevo fotografare la Yukon
Quest, una corsa di 1.600 chilometri con i cani da
slitta attraverso i selvaggi territori subartici tra


Alaska e Canada. La corsa si svolge nel cuore dell’in-


verno lungo un percorso che veniva usato ai tempi


della Corsa all’oro per consegnare posta e generi
di conforto. La Yukon Quest è considerata tra le
competizioni sportive più estreme del mondo: le
temperature raggiungono spesso 45 °C sottozero,


i venti possono soffiare a più di 65 chilometri orari


e le giornate sono così corte che la maggior parte
della corsa si svolge al buio.


Prima dell’incarico, non sapevo nulla di tutto ciò.


MARZO 2020
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