National Geographic Italy - 03.2020

(Jacob Rumans) #1

avere un’economia circolare piena entro il 2050.
Grandi città come Amsterdam, Parigi e Londra
hanno tutte programmi precisi al riguardo.
Un uomo che crede fortemente in questa
possibilità ed è riuscito a convincere molti altri
con i suoi lavori è l’architetto americano Wil-
liam McDonough. Insieme al chimico tedesco
Michael Braungart ha pubblicato nel 2002 un
libro visionario intitolato Dalla culla alla culla.
Come conciliare tutela dell’ambiente, equità so-
ciale e sviluppo, in cui si sostiene che i prodotti e
i processi economici possono essere progettati in
modo che i rifiuti diventino materiale utile per
qualcos’altro. Prima di partire per l’Europa, mi
sono recato in pellegrinaggio allo studio di Mc-
Donough a Charlottesville, in Virginia, e sono fi-
nalmente riuscito a fargli la domanda scottante:
tutto questo parlare di mettere fine ai rifiuti è
solo un castello in aria?
«Senza dubbio», mi ha risposto. «Ma le il-
lusioni e le speranze sono necessarie per fare
progressi. Dobbiamo sempre ricordare ciò che
diceva Leibniz: “Se è possibile, allora esiste”. E
io sono convinto che se riusciamo a far esistere
qualcosa, allora questa diventa possibile».
Il suo era un ragionamento tautologico o sag-
gio? E Leibniz l’ha detto veramente? In ogni caso
mi è sembrata un’argomentazione interessante e
sono partito alla ricerca di prove della possibile
esistenza dell’economia circolare.


Metalli


A DIRE IL VERO, le prime piccole crepe nella no-
stra naturale circolarità risalgono a prima della
rivoluzione industriale del Settecento. Gli antichi
romani, oltre a disfarsi in maniera disinvolta delle
anfore rotte, sono stati i pionieri di un’invenzione
foriera di problemi: le fogne. In pratica, scavarono
canali per convogliare i rifiuti umani nei fiumi,
anziché restituirli alla terra che, come vi dirà
qualsiasi esperto di circolarità, è il luogo depu-
tato di quelle sostanze nutrienti. McDonough mi
raccontava che quando era bambino nella Tokyo
degli anni Cinquanta (i suoi genitori erano mem-
bri dell’esercito d’occupazione statunitense) di
notte si svegliava per il rumore dei contadini che
raccoglievano le deiezioni della famiglia. Quei
ricordi gli sono rimasti impressi nella memoria.
I romani, come i fenici prima di loro, estrae-
vano il rame dai ricchi giacimenti del Río Tinto,


in Spagna. Ma riciclavano anche: fondevano le
statue di bronzo delle popolazioni vinte per fab-
bricare nuove armi. Il rame è sempre stato nel
mirino dei riciclatori. Rispetto ai liquami, non è
così abbondante e ha un certo valore.
Nel cortile della fonderia della Aurubis a
Lünen, nella regione tedesca della Ruhr, c’è
un’aiuola fiorita con al centro un grande busto di
Lenin, uno dei tanti Lenin di bronzo provenienti
dalle città della Germania Est che qui sono stati
fusi dopo la riunificazione del paese nel 1990. La
Aurubis, la più grande produttrice di rame d’Eu-
ropa, è anche la più grande riciclatrice di rame
del mondo. L’impianto di Lünen fu costruito nel
1916, durante la Prima guerra mondiale, quando
la penuria di rame per le granate per l’artiglie-
ria spinse i tedeschi a utilizzare le campane di
bronzo delle chiese. «Da allora quest’impianto si
occupa esclusivamente di riciclaggio», afferma
Detlev Laser, vicedirettore dello stabilimento.
Il rame, a differenza della plastica per esem-
pio, può essere riciclato all’infinito senza pre-
giudicarne la qualità: è un materiale perfetta-
mente circolare. Nell’impianto di Lünen si la-
vora ancora il rame, soprattutto cavi e tubi, ma
l’azienda si è dovuta adattare a trattare scarti
che ne contengono concentrazioni molto più
basse. Da quando l’Europa ha sostituito le di-
scariche con i termovalorizzatori, molte scorie
contengono pezzetti di metallo «perché qual-
cuno ha buttato il telefono cellulare tra i rifiuti
indifferenziati», spiega Laser, anziché tra quelli
destinati al riciclaggio.
Hendrik Roth, responsabile ambientale dello
stabilimento, mi mostra un escavatore che sca-
rica grosse quantità di rifiuti elettronici su un
nastro trasportatore che li trascina verso una
trinciatrice. È il primo di oltre una decina di
passaggi di smistamento. In un’altra postazione
vedo un nastro trasportatore con pezzi di circui-
ti stampati. Alcuni cadono in un abisso; altri
saltano su un nastro soprastante. Un sistema di
telecamere, mi spiega Roth, stabilisce se i fram-
menti contengono metallo, e, in caso contrario,
attiva un getto d’aria che li spinge verso l’alto.
La Aurubis vende alle industrie l’alluminio e
la plastica che recupera; il rame e altri metalli
non ferrosi finiscono invece nei suoi forni.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del
2017, nel mondo viene riciclato solo un quinto di
tutti i rifiuti elettronici. La Aurubis accetta anche
carichi provenienti dagli Stati Uniti. «Mi stupi-
sce però che una nazione così industrializzata

RIFIUTI ZERO 9
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