La Stampa - 11.03.2020

(Ben Green) #1

L’


esplosione del virus Co-
vid19 ha portato con sé un’i-
nevitabile scia di controver-
sie. Da un certo punto di vi-
sta è bene sia così: l’autorita-
rismo cinese è una delle cau-
se dell’espandersi del morbo, avendo bloc-
cato la diffusione di notizie per evitare “al-
larme sociale”.
Una polemica un po’ bizzarra riguarda
il ruolo della sanità privata, soprattutto in
Lombardia, che dovrebbe assumersi mag-
giori responsabilità nell’emergenza, visto
che quando si tratta di incassare i soldi dal-
la Regione non si tira indietro.
Orbene, la sanità lombarda è diversa da
tutte le altre del nostro Paese. E’ figlia di
una riforma del 1997 che ha posto eroga-
tori privati e pubblici sullo stesso piano
benché il sistema rimanga ovviamente
universalistico (tutti i cittadini hanno
egual accesso alle cure) e solidaristico (le
prestazioni non sono pagate dal singolo
beneficiario direttamente, ma coi soldi
delle imposte).
Il meccanismo prevede una divisione
fra funzioni di sanità pubblica, assistenza
di base e controllo dell’attività ospedalie-
ra, affidate alle Asl, mentre l’erogazione
delle prestazioni sono compito delle
Aziende ospedaliere, pubbliche e private.
I controlli sono identici, per le une e per le
altre, e così il costo che la Regione attribui-
sce alle diverse prestazioni. La diversità
dalle altre regioni, sta qui.
Questo “terreno di gioco livellato” ha
consentito lo strutturarsi di una rete ospe-
daliera nella quale il privato non occupa,
come altrove, un ruolo “complementare”
al pubblico (quello che fanno le cosiddet-

te “cliniche”) ma gestisce pure ospedali
(anche abbinati ad eccellenti università)
importanti come il San Raffaele, l’Huma-
nitas, il San Donato, paragonabili a quelli
pubblici.
Guardiamo ai posti letto: nel privato
stanno ad esempio la maggioranza dei po-
sti per lungodegenza (509, il 58%) e recu-
pero e riabilitazione (4488, il 74%).
Come ogni ecosistema, anche la sanità
lombarda si è evoluta nel tempo e, con la
loro coesistenza e competizione, pubbli-
co e privato hanno sviluppato una certa
specializzazione funzionale. Il privato è

però un po’ più libero nello sperimentare
sul piano organizzativo e le sue sperimen-
tazioni presumibilmente sono servite da
riferimento anche al pubblico.
Dal punto di vista del singolo cittadino
c’è assoluta equivalenza: la persona con
un problema può bussare alla porta dell’o-
spedale più adeguato alle sue esigenze,
senza nemmeno chiedersi se sia privato o
pubblico. Forse questa competizione è
uno dei fattori che ha determinato la
straordinaria capacità che il sistema sta
mostrando in questi giorni.
L’assessore lombardo non “elargisce”
soldi agli ospedali privati: paga per presta-
zioni che altrimenti dovrebbe erogare di-
rettamente e che abbisognerebbero di

nuove strutture e macchinari. Il grande af-
follamento nelle strutture private anche
di pazienti fuori regione nonché i tassi di
mortalità entro 30 giorni post-intervento
(migliori in Lombardia rispetto all’Italia e
migliori negli ospedali privati lombardi ri-
spetto ai pubblici – dati Agenas-) dimo-
strano che esse svolgono il lavoro bene e
in modo apprezzato dai pazienti.
Oggi non siamo in tempi normali e pri-
vato e pubblico sono nella stessa trincea. I
privati si sono impegnati a mettere a di-
sposizione proprio personale sanitario
nelle strutture pubbliche. La Regione stes-
sa ha riorganizzato la rete ospedaliera
smistando verso alcuni centri i malati per
tutta una serie di patologie, liberando spa-
zio per i contagiati. Scorrendo la lista si ve-
de chiaramente che pubblico e privato so-
no sullo stesso piano.
La sanità italiana infatti non è “gratis”, è
pagata dal contribuente e se non è efficien-
te non è “per tutti”, nel senso che viene ra-
zionata con lunghissime liste d’attesa che
le strutture private contribuiscono a far di-
minuire grazie agli assicurati, i quali paga-
no comunque le tasse a favore di tutti e di-
sintasano la richiesta presso gli ospedali
pubblici: andrebbero ringraziati più che
demonizzati.
Le eccellenze sono pubbliche (vedi l’E-
milia Romagna) e private. Quello che è
stucchevole è l’accanimento ideologico
verso chi perseguendo il proprio interes-
se “spesso promuove quello della socie-
tà in modo più efficace di quando inten-
da realmente promuoverlo”. Lo aveva
capito Adam Smith, ce lo siamo dimenti-
cati noi. —
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È


quanto mai probabile che l’epide-
mia in corso sia destinata a modifica-
re il panorama politico italiano, e
non soltanto italiano, fino a renderlo
irriconoscibile. E non sto parlando
del governo Conte o dei sondaggi su
Salvini, ma di trasformazioni ben più radicali.
Come sempre quando il tessuto della storia si la-
cera, è molto difficile prevedere in quale modo la
lacerazione si ricomporrà. Possiamo però alme-
no avviare un ragionamento, sapendo che si trat-
ta soltanto del primo passo, molto malfermo, di
una riflessione che ci accompagnerà per mesi,
forse anni. E possiamo incardinare questo avvio
di ragionamento su tre parole tronche: serietà,
sovranità, libertà.
La serietà, innanzitutto. La nostra è un’epoca
poco seria. Come il filosofo spagnolo José Orte-
ga y Gasset diceva del periodo fra le due guerre
mondiali, anche oggi «una ventata di farsa gene-
rale soffia sul suolo europeo». Ma da dove viene
mai quest’aria farsesca? Negli stessi anni di Orte-
ga un grande storico, l’olandese Johan Huizin-
ga, proponeva una possibile chiave di lettura:
«come il puzzo dell’asfalto e della benzina sulle
città», scriveva, «così incombe sul mondo un nu-
volone di sofismi». All’ombra di un nuvolone di
sofismi diventa impossibile distinguere il bene
dal male o il falso dal vero. Le percezioni si stacca-
no dalla realtà, e di dimostrabile, verificabile,
“oggettivo” resta ben poco. Prive di riferimenti
condivisi, le persone si isolano le une dalle altre e
si rifugiano ciascuna all’interno della propria
soggettività. Se sono immerso in una Babele d’in-
terpretazioni e non ho un criterio che mi aiuti a
distinguerle, del resto, perché mai non dovrei
sposare le letture del mondo che più mi conven-
gono e gratificano soggettivamente? Se tutti i
punti di vista si equivalgono, perché dovrei ri-
nunciare a difendere il mio punto di vista sogget-
tivo, a qualunque costo? Queste soggettività
sperdute nel mare dei sofismi potranno dire tut-
to e il contrario di tutto, cambieranno opinione a
seconda delle convenienze, e non saranno mai
obbligate a motivare, dimostrare o rendere con-
to di alcunché. Una farsa, appunto. E una farsa
triste e priva di spirito per giunta, poiché tutti av-
vertiranno il vuoto, la vanità e l’ipocrisia che il lo-
ro frenetico agitarsi cerca invano di esorcizzare.
Del nuvolone di sofismi che ci avvolge abbiamo

spesso incolpato o i social media o i partiti cosid-
detti populisti. Basti pensare ai tanti discorsi di
questi anni sulle fake news. Ma i social media so-
no soltanto uno strumento, per quanto potente.
E i partiti populisti paiono più aver sfruttato il nu-
volone che averlo creato – anche se, non c’è dub-
bio, sfruttandolo lo hanno alimentato. Forse il
punto è altrove, allora. Forse i social media non
fanno altro che amplificare sofismi già esistenti,
dei quali per parte sua il populismo è una conse-
guenza e non una causa. E forse quei sofismi tro-
vano a loro volta una matrice ben più profonda
in nient’altro che nell’avanzare della nostra mo-
dernità. La modernità occidentale del resto, rela-
tivistica e individualistica, da più di due secoli di-
sincanta il mondo, corrode le certezze, moltipli-
ca i punti di vista, esalta la soggettività. Ed è diffi-
cile non pensare che il nuvolone di sofismi non
sia altro che il risvolto negativo delle sue tante
conseguenze positive.
Torniamo all’epidemia. Le catastrofi sono ne-
miche mortali dei nuvoloni di sofismi. Il nuvolo-
ne di cui parlava Huizinga negli anni Trenta, ad
esempio, fu disperso dalla seconda guerra mon-
diale, e ci mise poi vent’anni per ricominciare a
prender forma. Riportando al centro la realtà in
tutta la sua durezza, le catastrofi ci obbligano a
uscire dal chiuso della nostra soggettività per
fronteggiare il nemico comune. A semplificare
drasticamente, sotto la spinta dell’urgenza prati-
ca, le molteplici letture possibili della realtà. Nel-
le catastrofi dobbiamo trovare un accordo sul ve-
ro e sul falso e sul bene e sul male, motivare quel
che affermiamo, impegnarci alla coerenza. In
una parola: siamo costretti a esser seri. La sovra-
nità, in secondo luogo. C’è stato in questi giorni
chi ha sostenuto che l’epidemia, mostrando co-
me i singoli stati non siano in grado di affrontare
una sfida planetaria, porterà a un’accelerazione
dei processi d’integrazione sovranazionale. Non
meno globalizzazione, quindi, ma di più. È un’ar-
gomentazione logica, e non è detto che il futuro
non la dimostri corretta. Contiene però un grave
elemento di fragilità. Nella vicenda del coronavi-
rus abbiamo visto delle istituzioni locali, gli stati
nazionali e le loro articolazioni interne, affronta-
re una sfida globale con strumenti squisitamen-
te territoriali – delimitazione, esclusione, confi-
namento. È senz’altro vero che se quelle istituzio-
ni si fossero coordinate su scala globale avrebbe-

ro agito in maniera molto più rapida ed efficace.
Poiché quel coordinamento non c’è stato, tutta-
via, questa considerazione resta ipotetica, e mi
permetto di dubitare che agli occhi del «cittadi-
no qualunque» essa sia destinata a prevalere su
una percezione ben più immediata e concreta: il
nemico è giunto da fuori, la salvezza è stata trova-
ta dentro. Mi permetto di dubitare, insomma,
che alla fine di tutto questo si leverà una richiesta
di maggiore integrazione globale. Tanto più che
è la quarta volta in vent’anni che quell’integrazio-
ne viene percepita come una fonte d’instabilità,
dopo l’11 settembre, la Grande Recessione e l’on-
data migratoria, e nelle occasioni precedenti la
risposta delle opinioni pubbliche è sempre anda-
ta nella direzione di chiedere che si rafforzassero
gli stati nazionali. E tanto più che almeno per
ora, e diversamente da quanto accadde infine in
occasione della crisi del debito sovrano del
2011-2012, sulla risposta dell’Unione europea
all’epidemia non possiamo che stendere un euro-
peistico pietosissimo velo.
Veniamo infine alla terza parola tronca: liber-
tà. Le catastrofi, dicevo, sono nemiche mortali
dei nuvoloni di sofismi. Ma quei nuvoloni, a loro
volta, sono il risvolto negativo della modernità
occidentale, individualistica e relativistica. Ed è
difficile pensare che le catastrofi riescano a elimi-
nare chirurgicamente le conseguenze negative
senza intaccarne in alcun modo le cause positi-
ve. La serietà, insomma, ci imporrà di ripensare
seriamente le nostre libertà. Quanto alla sovrani-
tà, non c’è neppure bisogno di dirlo: non è chi
non veda nella sua espansione un rischio per la
democrazia liberale. Ma quel rischio c’è pure
nell’ipotesi opposta, l’accelerazione della globa-
lizzazione, anche se da quella parte tanti conti-
nuano a non vederlo. Nessuno, infatti, ha anco-
ra capito se la maggiore integrazione sovranazio-
nale possa essere coniugata col governo dell’opi-
nione pubblica, e come.
Siamo giunti a un tornante delicatissimo per
la società aperta. Le sfide esterne la mettono in
grande difficoltà, e i suoi nemici si moltiplicano.
Anche i suoi più appassionati amici, però, do-
vrebbero fare attenzione: non è affatto detto che
aprirla ancora di più, e più velocemente, sia oggi
il modo migliore per difenderla.
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LA TIRATURA DI MARTEDÌ 10 MARZO 2020


È STATA DI 162.964 COPIE


E


d è che gli elenchi di precauzio-
ni da osservare che si stanno dif-
fondendo anch'essi da un’estre-
mità all'altra del pianeta asso-
migliano a specchi che rifletto-
no le nostre paure più intense
e, spesso, la nostra codardia.
Temevamo la Cina e i cinesi: che gioia po-
ter trasformare le vie imperiali della seta in
corridoi di contaminazione e zone turisti-
che vietate. Che sollievo vederli autoisolar-
si, erigere una barriera sul Pacifico, molto
più efficace delle spacconate del signor
Trump.
Stiamo combattendo contro la globalizza-
zione: ecco che il ritorno all’ovile delle no-
stre industrie, fabbriche, capitali, di cui il
presidente americano era stato il risibile
araldo, sta diventando una tendenza e appa-
re come il rimedio, il vaccino e l’espiazione
di una malattia globalizzata e senza confini.
Ne abbiamo avuto avvisaglia con i voli ae-
rei. Il bilancio del carbonio è diventato il
trabucco delle anime e il numero delle no-
stre miglia racconta la quantità di crimini
commessi da ognuno contro il pianeta. Ed
ecco la vittoria dei malvagi profeti di que-
sta ecologia punitiva e immobile. Il trionfo
di un levi-straussismo per sfigati che fingo-
no davvero di odiare i viaggi e gli esplorato-
ri in tristi tropici moralizzati.

L’Europa è un colabrodo, tuonava Mari-
ne Le Pen. Chiudiamo le nostre porte ai
dannati del vasto mondo e, fin da subito,
ai migranti dalla Turchia, strepitavano i
demagoghi e i populisti. Anche lì preghie-
ra esaudita. Lunga vita a razzisti, xenofo-
bi e sovrani, troppo felici che il coronavi-
rus legittimi il loro sospetto per tutto ciò
che transita, espatria, si muove e circola.
Lunga vita a Matteo Salvini che non ha
nemmeno bisogno di una campagna per
vedere l’Italia settentrionale barricata co-
me Forte Alamo. Avanti i neofascisti greci
per mobilitare la guardia costiera e alza-
re, a forza di sprangate, i ponti levatoi del
continente. E dopo tutto, che cos’era la
Brexit, se non una gigantesca quarantena
politica e commerciale di un Paese?
Eravamo ebbri e intossicati del nostro
giovanilismo. Morte agli “anziani”. Ben-
venuti in una società in cui, là dove Enea
portava suo padre Anchise sulle spalle,
non tarderemo molto, se questa follia con-
tinua, a rinchiudere nei loro ospizi gli an-
ziani troppo fragili per sopportare l'affet-
to di uno sguardo o di una visita.
E questa ricerca ossessiva del “paziente
zero”, quello attraverso il quale è arrivato
il contagio: un turista che ritorna dall’Af-
ghanistan? Un operatore umanitario ne-
gligente? Un uomo d’affari irresponsabi-
le passato da Milano? La verità è che que-
sta frenesia non è lontana, nello spirito,

dal nostro rinnovato gusto per la caccia
all’uomo e dagli effetti del branco; ancora
un po’ e i nostri media, lanciati in questa
caccia virtuosa e igienica, sembreranno
serragli per capri espiatori.
Che dire delle richieste di contenimen-
to? Queste intere città in quarantena?
Stiamo andando verso un mondo in cui
stare da soli, a casa, eventualmente da-
vanti a un computer, sarà sufficiente per
rendere tutti felici? Il commercio di ani-
me e corpi, la frequentazione di banchi di
scuola, la vita urbana e persino il gusto
della città saranno presto vestigia del pas-
sato? Ed è il colpo di grazia, a proposito,
per il cinema nell’era di Netflix, per i festi-
val ai tempi di YouTube e per le elezioni
comunali quando basta votare su Twit-
ter?
E poi questa usanza che viene così rapi-
damente imposta, di non stringere più la
mano: in questo modo si proibisce un bel
gesto di uguaglianza e civiltà; è un segno
di solidarietà repubblicana, promosso dal-
la Rivoluzione francese e dallo spirito del
1789, che viene ostracizzato e demonizza-
to; e questo nel momento in cui la violen-
za e il nichilismo fanno cadere gli eletti,
aggrediscono i rappresentanti della nazio-
ne e la guerra di tutti contro tutti cerca
ogni motivo per prosperare.
Camus usò la peste di Orano per fonda-
re la sua metafisica della fratellanza.

Malaparte usò Napoli devastata dal cole-
ra per esprimere il suo orrore per la devasta-
zione e lo schifo della guerra.
E lo stesso Giono aveva saputo rendere il
suo Luberon del 1832 intossicato, febbrile,
diarroico, il paesaggio sontuoso di un amo-
re impossibile. Il minimo che possiamo di-
re è che ne siamo lontani. Come se il corona-
virus fosse un focolaio contagioso in cui fer-
mentano anche le tristi passioni e le cattive
mitologie del nostro tempo.
E come se questa nuova epidemia (che
forse non è più mortale di un’altra, ma che
sta facendo grandi sforzi, con la nostra insi-
stenza quasi maniacale di stabilire il ritmo
delle contaminazioni e di determinare il
passaggio dal suo “stadio 2” al suo “stadio
3”, per darsi l’aria della peste di Atene o di
Venezia), fosse una prova della verità per
un’umanità malinconica, suicida, persegui-
tata dalla pulsione di morte e che avrebbe
trovato, in questo virus, un motivo ultimo
per disperare.
Aleggia su questo pianeta globalizzato
ma insidiato dal ripiegamento, un’aria da
Tebe di Edipo dove le trionfali autocrazie
trovano un’intesa con le democrazie stan-
che, relativistiche e paranoiche per cadere
in un’altra contaminazione: quella che fa
di ognuno “l’ussaro sul tetto” del suo odio
per se stesso e per gli altri.
Traduzione di Carla Reschia —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL DOVERE DI SAPER SPENDERE IL CONTAGIO ALIMENTA LA SFIDUCIA


IN LOMBARDIA


BISOGNA TENER DISTINTE


SANITÀ E IDEOLOGIA


L’IMPATTO DEL VIRUS TRASFORMERÀ LA POLITICA ITALIANA


TM


Sono 1.100 i nuovi posti letto in arrivo nel gi-
ro di 15 giorni nelle terapie intensive e sub
intensive italiane grazie alla gara-lampo
della Consip, la società del Tesoro per l'ac-
quisto centralizzato di beni e servizi. Che ha
aggiudicato la prima procedura negoziata
d'urgenza per le attività di procurement re-

lative all'epidemia da Coronavirus, in coordi-
namento con il Dipartimento della Protezio-
ne Civile. Entro 3 giorni saranno consegnati
119 ventilatori, 200 tra 4 e 7 giorni e 886
tra 8 e 15 giorni. Per altri 2.713, che consen-
tono l’allestimento di altrettanti posti letto,
la consegna è prevista tra 16 e 45 giorni.

I supporti respiratori sono praticamente
dei salvavita nel caso dei pazienti affetti da
polmonite da Covid.
La patologia in buona parte dei casi richiede
un supporto respiratorio poiché attacca i
polmoni mandando i pazienti in grave soffe-
renza respiratoria. —

REDAZIONE


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Il numero del giorno

1.


I nuovi posti letto nelle terapie intensive nel giro di 15 giorni


Contatti
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BERNARD-HENRI LÉVY


LA REGIONE


HA UN SISTEMA SANITARIO


DIFFERENTE


DA TUTTI GLI ALTRI


NEL NOSTRO PAESE


ALESSANDRO DE NICOLA, ALBERTO MINGARDI


GIOVANNI ORSINA


MARCO ZATTERIN


D


obbiamo temere di non essere se-
ri come spesso è accaduto. Avere
il sacro terrore di non fare le cose
giuste e di farle male.
Il ministero dell’Economia ha
inizialmente programmato 3,
miliardi di interventi per strutture sanitarie, im-
prese e cittadini. Li ha elevati a 7, e ora immagi-
na di ampliare la cassa sino a circa 14 miliardi,
facendo glissare il rapporto deficit-Pil verso la fa-
migerata soglia del 3 per cento, quota raggiungi-
bile senza rischi aggiuntivi con un puntuale
coordinamento europeo. Basterà? C’è chi dice
che il conto reale potrebbe essere più salato, le
stime volano oltre i 30 miliardi. Fosse necessa-
rio, bisognerebbe spingersi anche lassù.
Ci si può macerare il fegato pensando che sa-
remmo meno fragili se avessimo fatto più rifor-
me nei «tempi buoni», invece che distribuire
mance improduttive col solo obiettivo di com-
prare il consenso degli elettori. La mancanza
di lungimiranza di una parte rilevante della
classe politica - ovvero la marginalizzazione di
comparti cruciali come Sanità, Istruzione, Ri-

cerca - è palese quanto la colpa di aver gestito il
Paese trascurando il futuro. Ora che i nodi ven-
gono al pettine, si può auspicare che vada di-
versamente, ma crederci sul serio richiede pa-
recchia fede.
Il quadro impone costosi interventi legislativi
a vantaggio di chi non è in grado di ottemperare
agli adempimenti, a partire dai mutui. Fondi
per la Sanità, macchine e ambulanze, assunzio-
ni istantanee. Si richiedono denari per garanti-
re i servizi elementari e la cassa integrazione. Si
impone il coraggio di investire, di predisporre la
leva pubblica per scaldare l’economia, sblocca-
re i cantieri, puntellare turismo, commercio, ex-
port, aiutare le aziende. Ci sarà una recessione.
Potrebbe essere una botta violenta, due punti al-
meno, a essere fortunati. Per sanarla servirà
una ardimentosa cura da cavallo.
È dolce naufragare nel sogno di un’Europa
svegliata dal virus, un’Ue che emetta dei corona-
bond garantiti e raccolga capitali per aiutare i
cittadini. Potrebbe succedere se Francia e Ger-
mania fossero colpite duramente, se la malattia
diffusa aiutasse a superare antichi automatismi
continentali. Sarebbe un piano Marshall antivi-
rus finanziato in casa insieme con la Bce. Un’otti-

ma idea, soprattutto perché, restando a guarda-
re e senza incidere, l’Europa sgretolerà altre por-
zioni di dignità e fiducia.
L’Italia farebbe meglio a non sfondare il 3%.
La sensazione di fondo è che tuttavia, con una
solida strategia impacchettata coi partner Ue,
potrebbe anche scegliere di permetterselo. Da-
vanti a un piano credibile, ben concepito e con-
trollato, persino i mercati non tremerebbero,
sperando in una rapida e salvifica ripartenza del-
la nostra economia che finalmente avrebbe una
concreta opportunità su cui sognare. La credibi-
lità potrebbe imbrigliare lo spread.
Il premier Conte ha citato «l’ora più buia» e il
discorso di Winston Churchill all’inizio della
Seconda guerra mondiale. È importante ricor-
dare come continua: «Confido pienamente
che se tutti faranno il loro dovere (e qui il bri-
tannico ricordava Horatio Nelson a Trafal-
gar), se nulla verrà trascurato, che se tutti i pre-
parativi verranno fatti al meglio, come già av-
viene, sapremo dimostrarci ancora una volta
capaci di difendere la nostra isola natale». È
esattamente ciò che tocca all’Italia per salvar-
si. Fare tutto. Subito e bene. —
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18 LA STAMPAMERCOLEDÌ11 MARZO 2020


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