24 Mercoledì 11 Marzo 2020 Il Sole 24 Ore
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Spregiudicato.
Tra i leader più a
proprio agio nel
nuovo disordine
mondiale il
presidente turco
Recep Tayyip
Erdoğan occupa
un posto di rilievo
in virtù del
cinismo con cui
gestisce la crisi
umanitaria siriana
IL CAPITALE REPUTAZIONALE DI UN PAESE COESO
—Continua da pagina
L
a furbizia sarebbe, se-
condo i giornalisti del
quotidiano americano, la
cifra identitaria del no-
stro popolo, l’innato ri-
flesso di trovare il sotter-
fugio e fare fesso il legislatore, il
prossimo e la collettività.
Ci meritiamo davvero questa re-
putazione? L’effetto che le nostre
azioni, materiali e immateriali,
fanno sugli altri è fondamentale
per gli individui, le imprese e i Pae-
si. La reputazione è una variabile
particolarmente sensibile per l’Ita-
lia, i cui punti di forza sono l’arte,
la bellezza, l’ospitalità, la buona
cucina, vettori reputazionali co-
struiti nel tempo lungo della storia.
Il più delle volte l’immagine che
abbiamo di noi stessi coincide con
quella che riusciamo a veicolare,
ma questa identità può essere fa-
cilmente intaccata. Questo non
equivale a disconoscere le innume-
revoli eccellenze manifatturiere
dell’Italia – una tra tutte Diasorin
e il suo kit per diagnosticare il co-
ronavirus – ma ricordare che sia-
mo diversi da Germania o Giappo-
ne, la cui competitività economica
si alimenta di fredde conoscenze
formali e tecnologie brevettate.
Il punto di partenza è essere co-
scienti che nelle ultime settimane
la reputazione di cui gode l’Italia
non è la migliore, per usare un eu-
femismo. Per limitarsi alla classe
dirigente, è quella di chi litiga inve-
ce di dimostrare coesione, insulta
altre etnie anziché cercare la soli-
darietà altrui, indossa inutili ma-
scherine o si lancia in arditi paral-
lelismi storici quando è necessario
professionalismo e lasciar perdere
la vanità. Alcuni, molti, reagiscono
provando vergogna e imbarazzo,
altri, forse troppi, si sentono feriti
nel proprio orgoglio e gridano al
complotto anti-italiano.
Non vogliamo certo discutere
delle decisioni sostanziali prese per
combattere Covid- – anzi, come
ha twittato Nassim Taleb, l’autore
di Il cigno nero, «l’Italia non sta ri-
schiando la sua economia per scon-
figgere il virus. Sta abbassando i ri-
schi per l’economia combattendo il
virus». I danni sono frutto soprat-
tutto della comunicazione che se ne
è fatta. È spesso prevalso un ap-
proccio provinciale e proiettato ver-
so l’opinione pubblica italiana, di-
menticando che nell’era del web, dei
social network e dei selfie sapere co-
municare a una platea necessaria-
mente globale è diventata una com-
petenza fondamentale.
Cosa vorremmo che gli altri pen-
sino di noi? La reputazione può es-
sere suddivisa in varie dimensioni:
affidabilità, prestigio, competenza,
competitività, strategia e capacità
di visione, identità e responsabilità.
Ogni azione impatta una di queste
dimensioni e in una situazione di
crisi bisogna capire quali privile-
giare rispetto alle altre. La scelta di
“chiudere” l’intero Paese in rispo-
sta all’epidemia è una scelta di re-
sponsabilità, se suffragata da com-
petenza: l’Italia sarà un Paese più
protetto degli altri, dove si attende
sperando che le previsioni basate
sulle curve di diffusione si rivelino
miracolosamente errate.
La competitività è attualmente
una dimensione che passa in se-
condo piano rispetto all’affidabili-
tà, per esempio del sistema sanita-
rio. L’identità dell’Italia è rappre-
sentata dalla coerenza delle forze
politiche nel privilegiare il bene co-
mune e nella coesione dei cittadini
nel rispettare la lettera e lo spirito
delle disposizioni governative.
Senza scomodare per l’ennesima
di Andrea Goldstein e Gloria Origgi
NASCE UN NUOVO ORDINE MONDIALE,
SOTTO IL SEGNO DELL’INCERTEZZA
N
on sarà la fine del mon-
do. Forse però il
scriverà la fine ufficiale
di un mondo.
Di questi tempi i ri-
chiami alla crisi finan-
ziaria del si sprecano, ma servono
più a marcare le differenze che le somi-
glianze tra il grande sconquasso di ieri
e quello di oggi. E non solo perché que-
sta che si profila è prima di tutto una cri-
si economica. Ma perché i suoi prossimi
sviluppi potrebbero finire per liquidare
il risultato dei faticosi sforzi di coopera-
zione internazionale allora avviati.
Fu proprio alla fine del a
Washington che il G, il consesso dei
Paesi occidentali più industrializzati del
mondo, decise che fosse giunto il mo-
mento di condividere lo scettro della go-
vernance globale nel G- (allargato alle
maggiori potenze emergenti, in testa
Russia, Cina, India). L’anno dopo a Pitt-
sburgh, la consacrazione della svolta
orchestrata sotto leadership americana,
Barack Obama ai primi passi, il neo-
presidente idolatrato da quasi tutti. Al-
lora l’Europa contava e premeva, ascol-
tata, per una reazione multilaterale al
massimo. La Russia non aveva ancora
invaso la Crimea, la Cina era il colosso
che restava sullo sfondo.
Alla prova dei fatti e degli interessi
conflittuali in campo, quella governan-
ce si è presto rivelata debole e ineffica-
ce, i G annuali via via sempre più li-
turgici e meno incisivi. Il governo della
globalizzazione cominciò quasi subito
a fare acqua. Il Doha Round per la libe-
ralizzazione del commercio era fallito
da tempo. Per superare la crisi finan-
ziaria ognuno andò per la sua strada,
Obama per primo, ognuno con i suoi
piani di salvataggio e le proprie regole.
Anche se un simulacro di coordina-
mento rimaneva in piedi.
Oggi, anni dopo, tutto questo è
trapassato remoto.
Non sono le prove di governance più
o meno riuscite ma quelle di caos glo-
bale a tenere la scena.
Non solo perché il coronavirus è il
nuovo flagello mondiale che ha colto
tutti di sorpresa, fa ballare le Borse,
spezza le catene del valore e chiama re-
cessione. E per di più si incrocia, aggra-
vando ulteriormente il quadro econo-
mico generale, con la guerra del petro-
lio in atto tra Russia e Arabia Saudita: la
prima spera con i mini-prezzi di affon-
dare la produzione americana da shale
destabilizzando anche Wall Street, la
seconda ha vari conti da regolare den-
tro e fuori dall’Opec (ammesso che il
gioco non sfugga di mano a entrambe).
A far barcollare il fragile ordine
mondiale nato a Pittsburgh nel ,
che ben poco aveva in comune con
quello di Yalta saltato nel , è stata
la fine degli ammortizzatori politico-
diplomatici che riuscivano in qualche
modo a puntellarne almeno l’architet-
tura formale. È stata la rottura plateale
degli equilibri di potenza che ha scate-
nato e continua a scatenare una sorta di
corsa al liberi tutti, in cui tutti ma pro-
prio tutti, grandi, medi e piccoli attori,
si sentono autorizzati ad agire fuori da
tutti gli schemi e senza limiti apparenti.
L’America di Donald Trump è di-
ventata la personificazione stessa degli
stravolgimenti fuori da tutte le righe:
sventolando le bandiere dell’America
first ha liquidato il multilateralismo
(peraltro in crisi da tempo) per giocare
sul doppio tavolo dei rapporti bilaterali
imbevuti di aggressività economico-
commerciale e di disimpegno politico-
militare in un’alternanza di stop and go
imprevedibili e quasi sempre destabi-
lizzanti per gli interlocutori. Dalla Cina
alla Nato fino all’Europa.
Da difensori e animatori dell’ordine
internazionale, quasi sempre il loro, gli
Stati Uniti ne sono diventati i nuovi de-
stabilizzatori, per raddrizzare i vecchi e
restare al centro dei nuovi equilibri mon-
diali. Con la Cina di Xi decisa più che mai
a conquistare il ruolo di principale anta-
gonista per cominciare. Con la Russia di
di Adriana Cerretelli
QUESTA CRISI
È UN’OPPORTUNITÀ
PER RECUPERARE
L’APPETITO
PER UNA VISIONE
DI LUNGO PERIODO
volta il trito e ritrito ideogramma
cinese, la crisi può essere perfino
una opportunità per recuperare
quell’appetito per la visione di lun-
go periodo costruita sull’expertise
che è indispensabile per sviluppare
una seria strategia.
Recuperare velocemente il “capi-
tale reputazionale” dell’Italia è indi-
spensabile per conservare un posi-
zionamento internazionale che sta
venendo meno, col rischio di perde-
re l’accesso a cerchie politiche deci-
sive per essere riconosciuti per ciò
che siamo – una potenza medio-
piccola che esiste solo nel quadro di
un Europa più coesa e autorevole.
All’atto pratico, dare dell’Italia
un’immagine di un Paese serio, co-
eso davanti a una minaccia transna-
zionale e consapevole dei rischi che
la popolazione incorre sia all’inter-
no sia all’esterno delle frontiere.
Il New York Times cita un resi-
dente lombardo che dice che Mila-
no è la nuova Wuhan – forse l’Italia
può essere di più, un esempio di co-
me una democrazia gestisce
l’emergenza grazie all’abnegazio-
ne, alla solidarietà e al rispetto vo-
lontario di qualche limitazione alle
libertà individuali.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Putin non meno determinata a sedere
nel triangolo dei più Grandi. E l’Europa
che in poco più di un decennio è entrata
in piena dissolvenza, una comparsa ai
limiti dell’irrilevanza completa ormai su
qualsiasi scacchiere decisionale.
La partita senza esclusione di colpi
che oppone vecchi e nuovi padroni del
mondo inevitabilmente apre praterie
alle ambizioni di grandi e piccoli vas-
salli regionali. Libia, Siria, Turchia solo
alcuni degli esempi affacciati sul Medi-
terraneo. Ma forse è il sultano di Istan-
bul quello che oggi merita il premio del
più spregiudicato agente provocatore.
Approfittando dei disordini di pote-
re che gli aprono spazi di manovra in-
sperati, il presidente Recep Tayyip Er-
doğan mesta e guerreggia nei torbidi
dei vicini ma in Siria, dove si scontra
con la Russia di Putin, rischia di pagarla
cara. E lo sa. Perché comprando con-
temporaneamente i missili russi, si è
alienato Stati Uniti e alleati Nato. Per-
ché, ritrovandosi con le spalle al muro,
ha pensato bene di ricattare l’Europa
con l’arma dei migranti che è stato pa-
gato, miliardi, per ospitare in Turchia.
L’altro ieri la sua missione a Bruxel-
les per battere di nuovo cassa ha sbattu-
to contro il no di Ue e Nato. Ma l’Europa
finirà per pagarlo di nuovo pur di ferma-
re la marea dei disperati. Anche se l’in-
contro tra due grandi debolezze non fa-
ranno la forza di nessuno dei due. Anzi.
Ma queste sono le caotiche storie di
un mondo in ebollizione che non riesce
a trovare la formula per mettersi in pace
con se stesso e ritrovare la perduta sta-
bilità e cooperazione per quanto imper-
fetta. Per questo anche un virus può tra-
mortirlo più facilmente. Per questo gli
shock del annunciano il principio
di un mondo diverso. Quale, si vedrà.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Le argentine per l’aborto
PROTESTE A BUENOS AIRES
Una manifestante davanti al Palazzo del Congresso a Buenos Aires
indossa la fascetta verde e ha le mani dipinte di blu, i due segni scelti
dal movimento argentino che ha dimostrato ieri per richiedere per le
donne il diritto all’aborto, l’eguaglianza di genere e la fine delle violenze
contro le donne. In Argentina l’aborto è legale solo in caso di stupro.
AFP
DIARIO DELL’EMERGENZA
LA STRANA
NOSTALGIA
DELLA PROSSIMITÀ
—Continua da pagina
U
sufruendo, in virtù della sua posizione, di una
serie di servizi e di interrelazioni che hanno
modificato la nozione di Milano, facendone
un tutt’uno da Lodi a Varese senza soluzione
di continuità. C’è molto verde intorno a me,
non soltanto parchi e aiuole, ma anche boschi
di acacie, antichi e selvatici, attraversati da strade interpode-
rali, su cui transitano automobili, squadre di biciclette, pe-
doni in abiti da corsa. Basta allontanarsi metri a piedi
e si è già nel fitto degli alberi.
I provvedimenti emanati dal Governo in questi ultimi
giorni obbligano me, come tutti, a restare quanto più possibi-
le dentro le mura dell’appartamento dove abito da anni.
Non è grande, non è piccolo: è un normalissimo appartamen-
to per una famiglia media. Dalle finestre c’è perfino la possibi-
lità di vedere un orizzonte piuttosto dilatato dove, nei giorni
senza nuvole, immaginare i Corni di Canzo. La cornice dun-
que è questa. Però c’è qualcosa che stride rispetto alla perce-
zione di una spazialità che questo luogo mi ha sempre regala-
to. È la prima volta, infatti, che la mia generazione (sono del
’) si deve misurare con decisioni restrittive prese certo per
il bene di tutti, ma che di fatto limitano la libertà individuale:
non possiamo uscire da casa se non per ragioni di lavoro, di
salute e di effettivo bisogno, l’invito è quello di restare isolati.
Nell’epoca dei social e delle relazioni virtuali, siamo segregati
da pochi giorni e già sentiamo il bisogno di ristabilire un con-
tatto concreto con i colleghi di lavoro, con gli amici, con tutti
coloro che ci assicurano di esistere nonostante la ragnatela
della virtualità, di avere una dimensione corporea oltre che
informatica. Chiamiamola “nostalgia della prossimità”.
Per la prima volta noi che siamo nati negli anni Sessanta
e che inevitabilmente ci portiamo dentro le aspirazioni di quel
periodo in cui l’umanità si è abituata a dilatare tutti gli oriz-
zonti, perfino quelli dello spazio extraterrestre, dobbiamo ora
convivere con il senso del limite geografico e del concetto di
prossimo. Nessuno mette in discussione la legittimità di tale
manovra. Ma da un punto di vista strettamente emotivo
prendiamo coscienza che qualcuno al di sopra di noi preordi-
na le nostre giornate almeno fino al aprile, ci chiude in uno
spazio domestico che fino al momento del divieto aveva il
senso di una accoglienza, dopo il divieto invece si è tramutato
in una sorta di prigione.
Non siamo abituati alle regole di uno stato di polizia e
nemmeno a quelle che i nostri genitori avevano conosciuto
durante l’ultima guerra. Ma non siamo in uno stato di polizia
e nemmeno in un coprifuoco. La sensazione piuttosto è quel-
la che immaginiamo si sia respirato oltre cortine, al tempo
della guerra fredda e dei regimi comunisti: quel grigiore bu-
rocratico che faceva marciare come automi gli individui sui
marciapiedi di tante città dell’est europeo, ne preordinava il
ritmo del respiro e le pulsazioni del cuore, esigeva obbedienza
legittimata solamente dal senso della Stato che gravava su
ciascuno di essi come un padre a cui obbedire, un padre non
di sangue ma di timbri, un padre scaturito dall’ufficialità am-
ministrativa a cui consegnare tutto, anche il flash di un’idea.
Ecco, se dovessi paragonare a qualcosa che la letteratura
ha descritto in maniera credibile, l’aria che respiriamo questi
giorni ha il potere di richiamarmi Franz Kafka, la sua dimen-
sione di impiegato modello, la cui esasperante regolarità poco
si accordava con il suo labirinto interiore. Ma il problema è che
di questo labirinto trapelava nulla o quasi all’esterno. Tutto
restava sommerso nel buio della sua solitudine, che avvolge
il suo romanzo più asfissiante: Il processo, un libro sulla con-
danna senza colpa. La solitudine burocratica di Kafka è la
stessa solitudine casalinga che noi proviamo in queste ore:
ci inchioda alle pareti casalinghe e ci riporta alla condizione
primordiale delle prime, antiche forme di civiltà demiurgiche.
Io non so se questo periodo genererà qualcosa di impor-
tante dal punto di vista culturale. Immagino di sì. Un filone
di narrazioni distopiche o apocalittiche scaturirà certo dalla
mente di scrittori e registi. La sceneggiatura del male è una
colla che non si stacca tanto facilmente dalla materia con cui
entra in contatto. Ma temo possano avere implicazioni mor-
bose, storie di individui non di una collettività, in cui il tema
del male è un fatto esorcizzante (tocca il mio vicino, non me,
e quindi mi salva). Chissà cosa avrebbe pensato Kafka che
invece definiva la sua tubercolosi una «malattia spirituale».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Giuseppe Lupo
SU 24 +
La rubrica di Giuseppe Lupo
Lo scrittore Giuseppe Lupo terrà
da domani online un «Diario
dell’emergenza» per i lettori di
24+. Ogni giorno un post con una
riflessione locale e globale su
questi giorni di Coronavirus.