Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

8 APRILE 2020


Foto Mattia Zoppellaro

Buonanotte.
Parole per rimboccare le lenzuola

di LUCA DINI

LETTERE


Vanity Lettere

onno Carlo è morto quando avevo sei anni. Era
il padre di mio padre. Se ne andò poco prima
dell’arrivo dell’estate, lasciando una moglie e
nove figli. Mio padre era il primo di quello squadrone
male assortito, e ha pagato a caro prezzo l’onere
della primogenitura che gli è toccata. Da ragazzino,
mi raccontano, le apparecchiature elettroniche lo
appassionavano: tagliava i fondi delle pentole per farne
batterie, si costruì persino un registratore per spiare
le telefonate amorose della sorella. A guardarlo oggi,
angoloso come una scogliera, non diresti mai di quei
lampi di fantasia che deve aver soffocato da qualche parte
per adeguarsi a una realtà più acuminata ancora, e a cui
pure, in certi momenti di apertura, quando il vento solleva
le tende, lui sceglie di concedere un’ora d’aria: è bene
esserci in quei momenti. Sono rari e bellissimi.
Di mio nonno – un uomo intransigente, mi dicono,
e soverchiante – conservo ricordi troppo fragili da
trattenere integri. La banconota che mi regalava, e con
cui correvo a comprare caramelle; il pigiama rosso e blu.
Quante volte mi sono sentita raccontare – nei momenti
nostalgici tipici di tutte le famiglie, persino quelle più
difficili – di un pomeriggio in cui, vedendolo in giardino
con quel pigiama, ho esclamato: «Nonno si è vestito da
Superman». Di fronte alle risate che avevo ingenuamente
provocato, diventò paonazzo, ma non disse nulla.
Che i meccanismi familiari siano ciclici è un fatto
risaputo: io, al pari di mio padre, godevo gli onori che
spettano alla prima nipote, ma allo stesso tempo ne
pagavo il dazio, lo scotto di vivere sotto una lente che
ingigantiva ogni cosa, a partire dal minimo problema
di salute. Certi giorni mi chiedo che piega avrebbero
preso gli eventi, se il nonno fosse ancora vivo. Se mi
sarei ritrovata ad avere due padri. Se le crepe che
hanno generato certi crolli disastrosi si sarebbero
formate comunque o se, al contrario, proprio quella sua
imponenza insopprimibile avrebbe rappresentato la
struttura in ferro per mezzo della quale la nostra casa
tutta storta sarebbe rimasta dritta, e in piedi.
Ci sono linguaggi che impariamo da piccoli. Per esempio
un’affettività trattenuta, poco incline alla carezza, è come
la fiaccola di una staffetta quando passa da un atleta
all’altro: ti ci allenano da bambino, e apprendi a leggere,
in quell’addestramento al silenzio, le parole dietro.

Gli sguardi possono diventare un’enciclopedia, sapete?
Deve essere nata lì, nell’apprendistato dei sentimenti
tenuti al laccio, questa mia tendenza a dire sempre, a
parlare, a scrivere. Come se volessi invertire il senso di
marcia di quello che ho visto da bambina, di quello che
mio padre ha visto da bambino, e fare tutto all’incontrario:
da dentro a fuori, non da fuori a dentro.
Il giorno dei funerali mi accompagnarono dai nonni
materni, per risparmiarmi l’esperienza: avevo sei anni.
Quando rientrai, a pomeriggio inoltrato, trovai papà
sdraiato, il vestito scuro, le scarpe penzoloni fuori dal letto.
Mi accolse dicendo: «Oggi mio padre è morto, e tu non
c’eri». Un rimprovero immeritato, che mi sono portata
dentro fino a qualche tempo fa. Un manrovescio che non
mi aspettavo: cosa poteva saperne una bambina della
morte? Quel giorno papà aveva trentadue anni, uno in
meno rispetto alla mia età di oggi. Ma nell’immaginazione
dei figli, i genitori sono nati adulti. Per me, mio padre ha
sempre avuto cinquantanove anni, come adesso. Anche
quando ne aveva venti. Quasi non riuscissi a distinguere
l’uomo che c’era dietro, o la ragazza con la gonna a
ruota e i fianchi stretti, prima che diventasse mamma.
Perché immaginarli giovani significa vederli umani.
Ammettere che non sono infallibili. Che possono
cadere. Sbagliare. Persino morire.
Solo ora capisco che mio padre perdeva suo padre
mentre imparava a diventare mio padre. «È morto e
tu non c’eri» non era un rimprovero. Al contrario, con
quelle parole dette male stava aggrappandosi a me, alla
persona più importante della sua vita, mentre un altro
pezzo di vita veniva restituito alla polvere. E lo faceva
come poteva, con il linguaggio che suo malgrado aveva
imparato mentre nonno Carlo gli passava il testimone,
completando l’addestramento all’amore che sta dentro
e che non esce, o esce appena.
antonia storace

Ecco che cosa capita, tenendo una rubrica di lettere.
Capita di scrivere un post sui troppi anziani morti
di Covid-19, sul vuoto che lascia un nonno che se ne va.
Capita di ricevere in dono un pezzo di vita, la vita
di Antonia. Capita di rispondere solo: grazie.

N


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Buonanotte.

L’AMORE CHE STA DENTRO


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