Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

VISIONI


VANITY FAIR


8 APRILE 2020


BERGAMASCHI


Fronte occidentale
di MATTIA FELTRI

bergamaschi non hanno paura
di morire. Non più del dovuto.
Hanno paura di morire lontano
da casa. Lo so, vale un po’ per tutti,
ma sono bergamasco e credo che per i
bergamaschi valga un po’ di più. Hanno
girato i continenti, sono partiti per
lavorare, in ubbidienza all’ossessione

struggente e stupefacente per il dovere
che stavolta è stata una condanna, e i
loro discendenti si trovano ovunque,
tenuti insieme dall’Ente bergamaschi
nel mondo con sedi a Perth, Santiago
del Cile, Johannesburg, Toronto. Poi,
quando si tratta di morire, vogliono
tornare a casa, ovunque sia casa,
a Bergamo, in Australia, in Africa,
purché sia in un luogo che sappia di
casa. Oggi i bergamaschi muoiono al
ritmo di quaranta, cinquanta, sessanta
al giorno e muoiono soprattutto in
ospedale, e morire in ospedale non è
morire a casa. Muoiono nei letti delle
terapie intensive, con le mogli, i figli
e i mariti lontani, e la lontananza è
peggio della morte. Questo, perlomeno,
ci raccontano i numeri e le cronache

ufficiali. Il sindaco di Bergamo, Giorgio
Gori, è andato però a vedere e ci ha
capito qualche cosa di più. A San
Giovanni Bianco (Val Brembana)
nelle prime due settimane di marzo
i morti per coronavirus sono stati sei.
Ma i morti totali sono trenta. Nello
stesso periodo dell’anno scorso, i
morti totali erano due. Trenta a due.
A Scanzorosciate, cintura di Bergamo,
cinque morti per coronavirus, trentasei
totali, sei totali lo scorso anno.
Trentasei a sei. Un giorno ci toccherà
di andare a vedere qual è stata la
dimensione precisa della catastrofe, e
scopriremo quanti vecchi bergamaschi
hanno detto no, l’ospedale no, se devo
morire preferisco che succeda qui, nel
mio letto, in mezzo a voi.

bbiamo sempre immaginato la fine del mondo co-
me un evento esterno: guerra atomica, poli che si
squagliano, meteoriti giganti e invece... In questi
giorni catastrofici, ognuno di noi è parte di questo dramma.
E la presa di coscienza della fragilità della vita sta spingen-
do tanti a interrogarsi sulle scelte fatte, sulle tante stronzate
con cui abbiamo sprecato l’esistenza.
Ansia, rischio, precarietà. Xanax al posto dello Spritz. Si può
non essere d’accordo su che cosa è bene e cosa è male, ma
tutti sono convinti che presto la «qualità della vita» andrà
nel peggiore dei modi, qualunque cosa ciò voglia dire. Ha
da passà ’a nuttata. Insomma, non sappiamo dove andiamo,
ma stiamo andandoci a rotta di collo. Essì, «la paura mangia
l’anima», diceva il titolo di un film del troppo ingiustamente
dimenticato Rainer Werner Fassbinder. E quando il gioco si
fa duro e non si sa più dove sbattere la testa, in attesa che
il mondo capisca come riprendere in mano il controllo
delle certezze, i più si stanno avventando come naufra-
ghi del Titanic su una vecchia scialuppa: la religione.
Per esempio, giovedì scorso è accaduto qualcosa di vera-
mente sorprendente perché mai accaduto fino a oggi: va in
onda una sfida parrocchiale tra Don Matteo su Raiuno e
il Papa su Tv2000, l’emittente dei vescovi. Bene: gli ascolti
del rosario delle 21 della finora «clandestina» (per ascolti)
Tv2000 mostrano 4,2 milioni di spettatori, secondo solo al-
la puntata finale della serie Don Matteo. Famiglie in massa
di fronte alla tv per pregare. Dall’Io a Dio, il passo è stato

A


DIO È CIÒ CHE MANCA QUANDO


NON MANCA NULLA


breve. Ieri, si scherzava: «Dio, dammi un assegno della tua
presenza». La felicità? Era diventata un diritto che ognuno
poteva cercare di comprare. Il senso della vita? Bastava so-
stituire la chiesa con la farmacia e le nostre esigenze spiri-
tuali erano garantite da una scatola di Viagra.
Ora il flagello del coronavirus, sopprimendo il futuro, ha
messo la nostra anima al muro. Spronandoci a distinguere
meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. Alla fine,
quando la morte è tangibile, osservando i nostri cari, si
comprende che il contrario della fine non è la vita, ma
l’amore. E così, anche in una società dura e cattiva, porni-
cizzata e competitiva, nella roulette dell’epidemia Dio è ciò
che manca quando non manca nulla.
E di fronte all’agghiacciante visione delle centinaia di bare
di Bergamo portate via dai camion militari, uno balbetta la
domanda di Severino Boezio: «Se Dio esiste, da dove viene
il male? E se non esiste, da dove viene il bene?». Quindi: la
Chiesa e le religioni riescono ancora a consolare gli uomini?
Nella modernità di ieri era prevalsa l’idea del futuro, l’idea
di una società perfetta, che poteva fare a meno del sacro,
della fede, della trascendenza. Nel postmoderno di oggi,
invece, l’utopia appartiene al presente, non riguarda un fu-
turo lontano, ma è qui e ora. Basta fare una semplice ricer-
ca sulla Rete e alla parola «spiritualità» zampillano oltre 4
milioni di risultati.
È significativo che l’autobiografia dello Yogi Yogananda, lo
Swami indiano che negli anni Venti ha fatto conoscere al
mondo occidentale lo yoga e la meditazione, sia stato l’uni-
co libro presente nell’iPad di Steve Jobs, il quale ne dispose
la distribuzione di 800 copie alle personalità che avrebbero
partecipato al suo funerale.
Nei film di Woody Allen il suo irresistibile cinismo nichilista
non si ferma davanti a Dio. Allen non ha la fede e l’assur-
dità dell’esistenza prende il sopravvento in maniera sarca-
stica. Così, parafrasando una sua battuta, possiamo dire: «Io
non so se Dio esiste. Ma se esiste, spero che abbia una buo-
na scusa per la tragedia che stiamo vivendo».

Parola di Dago
di ROBERTO D’AGOSTINO

Vanity Visioni

I


Claudio Porcarelli, Nicola Ughi
Free download pdf