Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

COPERTINA


Vanity Copertina

VANITY FAIR


Una produzione esclusiva

Vanity Fair

di ansia, bisogna dargli dei tranquillanti». Ma, aggiunge, le si-
tuazioni più difficili sono quelle degli anziani. «Mi chiedono
di toglierglielo subito. Mi dicono: dottoressa, fa niente, mi la-
sci morire. Ovviamente non li ascolto» – mi dice – «ma non
sono momenti semplici».
Nella fatica del suo mestiere c’è anche la gestione psicolo-
gica di una malattia che è nuova, senza un vaccino, e fa paura.
Dopo una certa età, quel che fa paura è anche sentirsi soli,
smarriti, incapaci di comprendere il susseguirsi delle cose. «I
parenti dei malati non possono venire a visitarli, li avvisiamo:
è pericoloso anche per voi». Ma l’ansia e l’amore formano
ogni giorno, fuori dall’ospedale, un fila di figli, mogli, mari-
ti con un sacchetto in mano. Dentro c’è sempre un pigiama
che vorrebbero consegnare, una piccola scusa per cercare di
vedere i malati o almeno avere notizie che, nei primi giorni
dell’emergenza, non sempre sono state date con puntualità.
«Lo ammetto, anche io qualche sera più concitata delle altre,
mi sono dimenticata di telefonare ai parenti, informarli sulle
condizioni dei ricoverati. Ma adesso non succede più. Il giro
di telefonate lo faccio sempre, più o meno, alla stessa ora. Mi
rispondono sempre al primo squillo».
Tra le persone di cui si prende cura Caterina, ci sono anche
diversi colleghi: la percentuale del personale sanitario infet-
tato è alta, nonostante le attenzioni. «La stanchezza e l’ur-
genza, a volte, ti fanno essere meno attento. Io, dopo tante
ore, mi tolgo gli occhiali protettivi perché mi fanno male. Mi è
capitato di scordarmi di rimetterli, per fortuna una collega in-
fermiera se n’è accorta subito. Lavorare insieme è anche que-
sto: avere un occhio per tutto e per tutti». Caterina vive con
il marito Davide, pneumologo all’Ospedale San Giuseppe di
Milano. Anche lui si occupa di pazienti affetti da coronavi-
rus e questo fa sì che, rispettando i protocolli ospedalieri, non
hanno dovuto cambiare più di tanto la loro vita famigliare.
«Ma non vediamo più nessun altro da un mese, solo Noè, il
gatto. Qualche sera fa avevo i brividi: si era semplicemente
spento il riscaldamento e io non lo sapevo. Quando mi sono
sfilata il termometro da sotto il braccio ho avuto paura».
Le giornate passano così, diverse, ma in fondo uguali una
all’altra. Se non fosse che ogni sera, sull’autostrada, il cielo
è un po’ meno buio della sera prima. «Il viaggio di ritorno,
quando l’adrenalina che mi ha tenuta in piedi crolla, è il mo-
mento dei pensieri. Ogni sera mi dico: domani sarà uguale.
Ogni sera mi chiedo se ho fatto la differenza. Allora penso a
quel ragazzo che è arrivato grave, e forse lo dimettiamo tra
un paio di giorni, a quella signora che adesso respira quasi da
sola, ai parenti che mi dicono mille volte grazie perché gli ho
dato una buona notizia al telefono, e a quegli altri che lo han-
no detto soltanto perché li ho chiamati. Penso che abbiamo,
io e Davide, due biglietti aerei per il Giappone, il viaggio che
sognavamo da anni. La partenza è quest’estate, e noi non li
abbiamo cancellati».
Milano è deserta, la dottoressa Conti scende dalla macchi-
na e mi telefona: «Non so se è il caso che io faccia le foto, e
questa storia della copertina. Io sono solo una dei tanti. Allo-
ra ce la meritiamo tutti».

piano. «Si capisce presto se è aggressivo. Che cosa fare, per i
più gravi, lo si decide insieme con i rianimatori. Non è giusto
dire che si sceglie chi curare in base all’età, non è giusto e non
è vero», dice. «Ciò che è vero è che siamo costretti a fare un
bilancio delle possibilità che ogni paziente ha di stare meglio
con un’intubazione, che è, per tutti, un passaggio delicato, co-
me lo sono gli altri aspetti della rianimazione, per esempio i
sedativi. Con questo virus, che va via lentamente, la sedazione
è prolungata. I danni che lascia si vedono, poi, al risveglio.
Fino a una certa età gli effetti, anche futuri, di questi trat-
tamenti sono gestibili, dopo diventa complicato: sottoporre
un ottantacinquenne, senza neanche troppe patologie, a tutto
questo significa trattarlo intensivamente per 20 giorni e ma-
gari procurargli, al risveglio, complicanze che non saprà gesti-
re. Questo è il tipo di valutazione che siamo chiamati a fare: il
rapporto tra i rischi e i benefici».
Chi conserva un minimo di capacità polmonare viene mes-
so sotto un casco che si chiama CPAP, al Papa Giovanni ne
hanno 24 per reparto, e sono tutti occupati. Come si sta sotto
quel casco forse è giusto saperlo: «Con quello indosso si è
isolati dal mondo: non si riesce a sentire, perché emette un
fischio e non si vede bene perché la visiera è di plastica. Dopo
due o tre giorni di trattamento molte persone hanno attacchi

«Ogni sera mi dico: domani

sarà uguale. Allora penso

a quel ragazzo che è arrivato,

era grave, e forse lo dimettiamo

tra un paio di giorni»

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