Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

VANITY FAIR


STORIE


8 APRILE 2020


Vanity A bordo!

Instagram.com/princesscruises. Una produzione in esclusiva per Vanity Fair

altri per i passeggeri. A un certo punto ho cominciato a par-
lare a tutti, indistintamente dal loro ruolo a bordo. Eravamo,
davvero, tutti sulla stessa barca. Volevo far capire che l’unico
modo per affrontare quella difficoltà era restare uniti, solo re-
mando nella stessa direzione ce l’avremmo fatta».
La gente l’ha capito?
«Sì. Ne ho avuto la prova quando molte delle persone che ave-
vano una cabina con il balcone hanno rinunciato al loro turno
di passeggiata sul ponte – l’avevamo organizzato a rotazione,
per fare prendere aria a tutti i passeggeri – per lasciare più
tempo a chi occupava alloggi interni, senza finestre. Un picco-
lo gesto di solidarietà che per me ha voluto dire molto. Nes-
suno si è tirato indietro, ognuno ha fatto la sua parte. Penso
anche ai ragazzi dell’entertainment, che hanno continuato a
fare piccoli show che mandavamo poi in onda nella Tv inter-
na. I passeggeri hanno lasciato migliaia di bigliettini affissi alle
porte per ringraziare. Trovarli, è stato commovente».

Come le è venuto in mente di regalare a tutti cioccolatini a
forma di cuore per San Valentino?
«La situazione era delicata perché molte coppie erano state
separate dalla malattia. Non volevo urtare i sentimenti di chi,
in quel momento, era triste e smarrito. Ma ho pensato che
quel pensiero fosse giusto per una crociera che doveva essere
dedicata all’amore e che leggere al microfono la Prima lettera
ai Corinzi, l’Inno all’Amore, fosse un messaggio di fede e re-
sistenza».
Che cosa le ha lasciato questa esperienza?
«La certezza che solo uniti si va da qualche parte. Uno spirito
che mi sembra di aver ritrovato in questi giorni difficili anche
qui, nel nostro Paese. E un ricordo indelebile, che ha offuscato ➺ Tempo di lettura: 8 minuti

«Qui il mare è quasi tutto. Lo vedi da ogni angolo,

anche se non vuoi. Da bambino guardavo l’orizzonte

e mi chiedevo cosa ci fosse dietro»

quello che pensavo sarebbe rimasto il più caro di tutti: quello
del mio primo imbarco».
Quando è stato?
«Avevo 18 anni, la nave era una chimichiera, si navigava nei
mari del Nord. Avevo in tasca il mio diploma di Aspirante Ca-
pitano di lungo corso – c’è scritto proprio così –, potevo im-
barcarmi come allievo ufficiale di coperta, e invece sono salito
come mozzo. Non mi importava il grado, volevo fare esperien-
za. Abbiamo viaggiato tutto l’inverno, le condizioni non erano
clementi. Ho perso 18 chili».
Per la nausea?
«Non conosco nessuno che, in certe condizioni, non soffra il
mal di mare. In più era una vita faticosa quella del mozzo, ma
l’ho rifatta molte altre volte. Penso che aver percorso tutta la
scala gerarchica, dal gradino più basso, mi abbia dato qualcosa
in più, come una scintilla d’amore per questo mestiere».
Qual è la cosa più difficile dell’andar per mare?

«Affrontare la nostalgia: alla lontananza non ci si abitua mai,
né chi parte né chi resta a casa. Con gli anni impari a sentirti
vicino anche se non lo sei, ma ci sono dei momenti in cui la
mancanza toglie il fiato. Allora ti aiuta la memoria. E anche la
tecnologia che ha cambiato tantissimo la vita di noi marinai».
Perché ha fatto questo mestiere?
«Mio padre aveva una bottega di falegname, forse sognava
che la prendessi io. Ma qui nella penisola sorrentina il mare
è quasi tutto: lo vedi da ogni angolo, anche se non vuoi. Da
bambino guardavo l’orizzonte e mi chiedevo che cosa ci fos-
se dietro. Credo di essermi iscritto al Nautico per darmi una
risposta».
Che rapporto ha un comandante con la sua nave?
«A me piace pensare che ogni nave abbia un’anima. Con la
Diamond Princess ho avuto un rapporto speciale: c’ero quan-
do l’hanno costruita e varata, ci ho navigato i primi due an-
ni della sua vita. Ci siamo salutati per molto tempo e poi ci
siamo ritrovati: io, intanto, ero diventato comandante. Ne
abbiamo passate tante insieme: due stagioni di tifoni, e poi
questa. Quella nave mi ha messo alla prova, ma è anche stata
dalla mia parte. Mi piace pensare che mi abbia insegnato a
essere un comandante migliore, per quello ho voluto renderle
quell’omaggio solitario. Dovevo dirle grazie».
È più difficile affrontare una tempesta o un’epidemia?
«La tempesta la puoi prevedere, mitigare, sai quanto durerà».
C’è stato un momento in cui ha deciso che sarebbe stato l’ul-
timo a scendere da quella nave?
«Non ho mai dovuto fare nessuna scelta. Restare fino alla fine
e portare a termine la missione non è una decisione, è un do-
vere. Non c’è nemmeno da pensarci: lo sai già. Lo sai sempre».

Tornando a casa
Il comandante Arma la sera del 2 marzo scende a terra
per ultimo dalla sua nave nel porto di Yokohama. Sarà poi
trasferito in quarantena in un ospedale giapponese.
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