Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1
l tempo è muscolo. Time is muscle. È l’impera-
tivo categorico di un cardiologo. In altre paro-
le: quanto è più breve il tempo dall’insorgere
dei sintomi di un infarto e l’ingresso in pronto
soccorso, tanto più aumenta la possibilità di
sopravvivere. «Ma in questi giorni i tempi au-
mentano, si dilatano. E gli spostamenti, gli accessi dai
luoghi più lontani, rendono tutto più difficile». Daniela
Trabattoni ha 52 anni ed è la responsabile dell’Unità
operativa cardiologia invasiva del Centro Cardiologi-
co Monzino di Milano, un’eccellenza in questo ramo
della medicina. E nelle settimane dell’emergenza virus
le patologie cardiache non danno tregua. E a volte si
sommano persino ai quadri clinici dei pazienti positivi
al Covid-19. «Quando abbiamo iniziato a organizzar-
ci per ricevere i pazienti che arrivano anche da altre
strutture, abbiamo notato una diminuzione degli in-
gressi in ospedale. Un dato inusuale, forse spinto an-
che dal fatto che durante i blocchi nelle città le perso-
ne si muovono meno, quindi hanno meno possibilità
di esporsi a rischi e affaticamenti del cuore. Ma poi è
tutto cambiato e la situazione è peggiorata: in molti
ormai arrivano dalle zone a rischio, vengono smistati
a seconda di chi è positivo, curabile, grave. E non è più
solo una lotta contro il tempo. Ma anche contro un ne-
mico invisibile e a volte imbattibile».

Lei come prova a combatterlo?
«Guardi, è una situazione triste perché di fronte a
certi casi ti senti impotente, non puoi fare molto. Ma
io ripeto a tutti di non avere paura, perché la paura è
un’esperienza primaria negativa. Deve invece guidar-
ti la determinazione. Anche quando non ce la fai. E
purtroppo siamo cardiologi, non infettivologi: spesso
abbiamo davanti quadri clinici così complicati e com-
promessi che non resta molto da fare».
Ci si sente fragili in queste condizioni?
«Di fronte al timore di non essere in grado, di non
potere gestire un paziente ti riscopri fragile. E ti senti
fragile soprattutto di fronte alle modalità imposte da
questo virus. Vede, di norma c’è contatto, si parla, ci si
stringe la mano. In questi giorni, invece, non ci si può
nemmeno toccare e ci si saluta solo con uno sguardo.
Questa terribile emergenza ti fa capire l’importanza
degli aspetti umani della nostra professione. Come la
pietas nei confronti della collettività e delle persone
che sono qui e che si affidano alle nostre cure».
Il Centro Cardiologico Monzino è un’eccellenza.
L’avanzamento nella tecnologia vi sta aiutando?
«Assolutamente sì, in questi momenti scopri l’impor-
tanza degli studi, della fatica che hai fatto. Sognavo di
diventare dottore da quando avevo 6 anni, ho scelto
la specializzazione in cardiologia giovanissima, prima
della maturità. Al quarto anno di università ero già in
laboratorio. La prima angioplastica è arrivata in Italia
nel 1992, a maggio. Qualche mese dopo mi sono laure-
ata e sono stata una delle prime donne a farsi strada
in un mondo che era appannaggio degli uomini. Non

VANITY FAIR


STORIE


8 APRILE 2020


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I


«Questa situazione, alla fine,

mi ha fatto capire che

non possiamo controllare

tutto. Siamo tutti sospesi.

Il virus ti insegna a dare

il meglio di te»

mi sono mai chiesta quanto una cosa, quanto un sogno
siano difficili da raggiungere ma quanta determinazio-
ne occorre per farli diventare realtà. Certo, di fronte a
questo virus anche la tua esperienza vacilla, scopri di
non avere tutti gli strumenti necessari, di dover spe-
rimentare terapie off-label, di dover assistere a esiti
non sempre brillanti. Ma continui a fare il tuo dovere.
Sempre».
Molti medici si ammalano. Lei ha paura di contrarre
il virus?
«Gliel’ho detto e glielo ripeto: la paura è un’esperienza
negativa. Io preferisco convivere con il timore, è una
cosa più razionale. E più utile. E sa di cosa ho timore?
Alla sera, quando torno a casa, ad aspettarmi c’è mia

madre che ha 80 anni. Le ho chiesto di tenere sempre
la mascherina. E le ho fatto capire che non dobbiamo
abbracciarci. Ceniamo lontane, ma ci guardiamo ne-
gli occhi. Parliamo, ma a debita distanza. Il timore che
si ammali mi attanaglia. Ma lo tengo sotto controllo e
provo a domarlo».
Qual è la prima cosa che pensa al mattino quando
esce di casa?
«Al mattino è più semplice: penso semplicemente alla
giornata da affrontare. Forse è una forma di protezio-
ne, forse è senso del dovere. Davvero non saprei. Poi le
giornate sono talmente piene che uno si dimentica di
tutto. Ai pazienti che arrivano viene fatto il tampone
e poi si inizia la procedura, lo smistamento, i reparti
puliti, quelli infetti, la terapia intensiva. Tutto deve fun-
zionare alla perfezione perché il tempo è muscolo. E
qui non possiamo perdere nemmeno un secondo».
Un’ultima domanda. Come infonde coraggio a se
stessa?
«È difficile da dire. E poi non parlerei di coraggio, che
mi sembra una cosa da eroi. Io non sono un eroe. Forse
non lo è nessuno. Sa, alla fine, cosa mi ha fatto capire
ancora di più questa situazione? Che noi non possia-
mo controllare tutto. E che siamo tutti sospesi. Questo
virus ti insegna l’utilità di vivere alla giornata e di dare
il meglio di te. Contro tutto e contro tutti. Non penso
si possa fare di più».

Una produzione in esclusiva per Vanity Fair

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