Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

VANITY FAIR


STORIE


8 APRILE 2020


Vanity Welfare

iprenderci la vita in mano. È il
suo primo pensiero appena suo-
na la sveglia. Sei del mattino, gli
occhi si aprono, la stanchezza vie-
ne spazzata via dagli impegni da
affrontare. Ivo Tiberio ha 58 anni.
Quando gli chiedi perché ha scelto di diventa-
re un medico e più precisamente direttore Uoc
(unità operativa complessa) di anestesia e riani-
mazione, lui ti risponde tagliando corto: «Perché
è il lavoro che mi fa felice e perché è il lavoro
che sono felice di fare». Uomo di poche parole,
«perché tutti sanno quello che penso», dice con
entusiasmo, la sua cifra, una sorta di sfida al peri-
colo per chi come lui ha scelto di operare in quel
limbo sospeso, in bilico tra la vita e la morte, che
è la terapia intensiva.
Mattino presto, ore 7.15, si entra puntali all’A-
zienda Ospedaliera Università di Padova, un gi-
gante di cemento che somiglia a un castello. Per
lui, però, non è né un castello né un ospedale, «ma
la mia seconda cosa, non potrebbe essere altri-
menti, è dalle elementari che sogno di essere qui».
Da bambino l’appassionò uno zio che studia-
va Medicina. «Laurearmi è stato impegnativo,
non difficile. Del resto, tutto ciò che uno sogna è
impegnativo. Ci vogliono costanza e metodo. Ma
se ti applichi, ci riesci. E io volevo riuscirci, a ogni
costo, per arrivare in quel territorio misconosciu-
to della medicina in cui l’anestesista come inten-
sivista ha una visione a 360 gradi».
Una visione a 360 gradi, camminando però
nella nebbia: la sua professione si muove dove
la chirurgia e la medicina diventano critiche e le
insufficienze degli organi sono la prassi. «Sì, la
prassi, la mia prassi, il mio territorio. Fino a quel
maledetto venerdì sera». 21 febbraio, per l’esat-
tezza: la data del primo ricovero di un paziente
positivo al Covid-19 nell’Ospedale di Padova, lo
spartiacque tra la vita di ieri e quello che affron-
tiamo oggi.
«Arrivò di sera tardi. La situazione ci fu chiara
subito. Devo dire una cosa, però: con la direzione,
fin dai primi casi in Cina, abbiamo iniziato una se-
rie di incontri per capire come gestire l’urgenza.
E una volta che l’urgenza è arrivata, abbiamo ini-
ziato ad agire subito». Dodici, quattordici, sedici
ore di lavoro al giorno. Sabato e domenica com-
presi. 40 medici. 56 infermieri. 18 posti letto in
terapia intensiva. Si crea il percorso assistenziale
e diagnostico: gli infetti si separano, i pazienti gra-
vi si ricoverano e quelli in terapia intensiva tocca-
no a Ivo. «Sono tutti spaventati quando arrivano.
E noi cerchiamo di aiutarli, di rassicurarli. In te-
rapia intensiva la mortalità non è certo un evento
eccezionale però ti fa male quando li perdi, quan-
do ti senti impotente e non puoi fare nulla. Chi ce
la fa, e non sono pochi, si risveglia frastornato. Un

ragazzo di 27 anni si è ripreso ed è migliorato così
in fretta da lasciarmi sorpreso. Ma le precauzioni
non sono mai poche, soprattutto per il mio staff».
Le precauzioni, appunto: a oggi non c’è nessun
contagio tra gli operatori sanitari dell’ospedale.
Ma occorre restare attenti. «Certo, stiamo molto
attenti. Ma non mi preoccupo del contagio perché
non ho il tempo di pensarci. A cosa penso? Agli
aspetti tecnici. E all’umanità. Prestare soccorso
a chi è sedato è un’attenzione profondamente
umana. Dai il tuo contributo. Con forza e umiltà.
Il resto dipende solo dalla Natura». Una Natura
che però oggi sembra ribellarsi a noi. «Non lo so,
io mi preoccupo più di noi che della Natura. Sa
cosa insegna questo terribile virus? Il valore
del nostro servizio sanitario, pubblico e nazio-
nale. Un bene per tutti, un servizio efficiente. E
quando leggo che i medici vengono definiti eroi,
non sono d’accordo. Perché noi non siamo eroi,
ma persone che quotidianamente si fanno cari-
co di aiutare chi è malato con professionalità e
impegno stando in trincea, non sotto i riflettori.
Passo la mia vita in ospedale, non c’è niente di

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«Prestare soccorso a chi

è sedato è un’attenzione

profondamente umana.

Dai il tuo contributo.

Con forza e umiltà. Il resto

dipende solo dalla Natura»

R


spettacolare, il mio è un lavoro di retroguardia.
Spero che finito tutto questo le persone lo ricor-
dino invece di ricondurre il nostro mestiere solo
alla malasanità».
È sera tardi, Ivo lascia il castello di cemento.
A casa lo aspetta una famiglia di operatori
sanitari, i suoi operatori sanitari. La moglie è di-
rettore del personale di un’azienda sanitaria, un
figlio studia Medicina e una figlia Veterinaria.
Alle 21.30 si cena tutti insieme, poi i figli van-
no a studiare e Ivo sprofonda sul divano, vicino
alla moglie. «Quel momento, il primo in cui posso
tirare un sospiro, mi sento come se si spegnessero
tutte le lampadine. E prima di chiudere gli occhi,
penso a quando riusciremo finalmente a ripren-
derci la vita tra le mani. Poi capisco che no, non
è questo il momento. Questa è la nostra fase so-
spesa».
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