Vanity Fair Italia 8 Aprile 2020

(Romina) #1

8 APRILE 2020


VANITY FAIR


Gabriele Galimberti


S TORIE


Elena aveva 86 anni e da cinquanta viveva a Milano, zona
Corvetto. Poi a novembre la necessità di fare la dialisi, una so-
rella che vive a Lodi e che si offre di ospitarla e portarla avanti
e indietro dall’Ospedale Maggiore. Ma lì è alto il rischio di con-
trarre il coronavirus, che infatti la infetta, e, con una situazione
clinica già compromessa, Elena muore in pochi giorni. «Potete
vederla due minuti, dotati di tute e protezioni, prima che chiu-
dano la cassa», ci hanno detto all’ospedale. La dottoressa tele-
fonava ogni sera. «L’ultima volta era commossa: doveva comu-
nicarci che la zia era mancata. La sola cosa che ci ha consolato
è che era sedata da un giorno, perciò non ha sofferto. Non si
meritava di andarsene così: aveva bene in mente come avrebbe
voluto il suo funerale, aveva scelto gli abiti, il luogo...».
«Quello che è successo ad Arianna è quello che succede a
tantissime famiglie che perdono qualcuno in questo momen-
to», mi dice Simona Ricchi, titolare di un’agenzia funebre che
opera a Milano e nel suo hinterland. La sua voce è calma ma
sofferente, al telefono. Continua a ripetere che non ha mai vi-
sto una cosa del genere, in modo ossessivo, sembra sotto shock.
«Ricordo benissimo quando ho capito che qualcosa era cam-
biato. Era un sabato bello, di sole. Il giorno prima era stata data
la notizia del “paziente 1” di Codogno. Noi abbiamo due case
funerarie, luoghi dove sostano le salme prima della funzione, di
solito. Ci stavamo quindi attrezzando per chiuderle, per evitare
gli assembramenti e i contagi: dovevamo cambiare metodo di
lavoro, quello è stato il primo segnale. Il secondo ci ha invece
travolti in pieno, e sono i numeri. Le telefonate si sono molti-
plicate». Secondo i dati della Protezione Civile i deceduti in
Lombardia hanno superato i 2 mila e c’è stato un picco di oltre
200 morti al giorno. Secondo Riccardo Salvalaggio, segretario
nazionale di FederCofit, che rappresenta le imprese funebri
in Italia, sono tantissime le agenzie del Milanese che in que-
sti giorni stanno supportando quelle della Bergamasca e del
Bresciano. «Nel 2019, il 77% delle famiglie, in Lombardia, ha
scelto di cremare i propri cari defunti, sono rare le tumulazio-
ni in terra. Ai forni crematori di Bergamo attualmente l’attesa
media è di otto giorni, di norma sono due. Per questo le salme
vengono smistate altrove. Ma questa è solo una parte dell’e-
mergenza: moltissimi nostri operatori si sono ammalati e sono
in quarantena, quindi mandiamo aiuti da altre zone. Tuttavia
il materiale protettivo sta finendo, e nessuno vuole mandare
fuori i propri lavoratori se c’è un rischio. Il “becchino” è sem-
pre stato deriso, umiliato, guardato con sospetto, adesso è cam-
biato tutto, c’è riconoscenza, la consapevolezza che siamo utili,
anzi necessari». Simona conferma: «Le persone che assistiamo
adesso sono tendenzialmente silenziose, un silenzio diverso dal
solito. Sono senza parole. Siamo abituati ad andare nelle case
delle persone, spiegare tutti i dettagli, aiutare in un momento
di difficoltà. Eppure adesso, in un momento di chiusura in ca-
sa o quarantena diventiamo fondamentali: come infermieri e
medici, siamo i soli che entrano in contatto con le famiglie. Si
tratta di persone che magari hanno visto andare via la persona
con l’ambulanza e poi non l’hanno vista più».
In Regione Lombardia la normativa prevede che in caso di
defunto infetto o sospetto infetto da Covid-19, la salma non
venga “trattata”. «Dopo la visita necroscopica che accerta la
morte, non vestiamo né sistemiamo più i cadaveri, che, co-
me sono, vengono avvolti in una “barriera”, ossia un lenzuolo

plastificato intriso di una soluzione disinfettante, e collocati
nella cassa», spiega Salvalaggio. «Vallo a spiegare alle perso-
ne, fai loro capire che non ci sarà vestizione, veglia, messa e
nemmeno benedizione se il resto dei familiari sono in quaran-
tena... È brutto metterli via senza niente», continua Simona.
«Ma soprattutto, fallo non per una o due volte al giorno, ma
per decine».
Esiste anche un termine tecnico per queste situazioni. «Si
chiamano “servizi funebri asciutti”, senza lacrime. Secondo le
indicazioni della Regione del 10 marzo, bisogna cercare di evi-
tare qualsiasi “manifestazione di affetto”, quindi appunto baci,
abbracci, strette di mano, contatti insomma. Non sono funerali,
sono “smaltimenti”, come nei campi di concentramento», dice
Salvalaggio. «Sanitariamente perfetto, umanamente devastan-
te. Manca tutto l’aspetto del servizio pubblico che facciamo,
ossia l’aiuto alle persone nell’elaborazione del lutto».
«Mamma, ti prego, torna a casa». È il nuovo saluto che ac-
compagna Simona quando esce di casa. Abituata ad avere il

LA SOLITUDINE DEI NUMERI


Una donna guarda la bara di un defunto straniero morto
in ospedale, al Cimitero Maggiore di Milano, in attesa
di essere rimpatriata. A sinistra, Simona Ricchi, 49 anni.

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telefono acceso 24 ore su 24, le sue figlie, Gaia, 16 anni, e Maria
Celeste, 12, fiutano il pericolo. «Controllano le mie dotazioni di
sicurezza, i modelli giusti delle mascherine. Non so quando, ma
tutto questo, spero presto, deve finire, perché ci sta distruggen-
do. Oggi ho trattato il caso di una coppia di anziani, lui morto
in un ospedale, lei in rianimazione in un altro ospedale ignara
di tutto. Abbiamo la salma in un deposito e i figli in arrivo da
lontano. Non smetto di pensarci. Si dice che il funerale genera
la stessa attesa, lo stesso pathos, anche se in negativo, del gior-
no del matrimonio: il virus ci ha tolto anche questo. E allora
amo anche fare la fila al supermercato: tutti si lamentano, ma
pensiamoci. Siamo vivi: è un momento in cui si può chiacchie-
rare, prendere aria. Respirare, di nuovo».
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