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«Nessuno di noi all’inizio immaginava
una situazione del genere», ammette Ila-
ria, mamma di un bimbo di dieci anni,
infermiera in un reparto di malattie infet-
tive, sempre a Milano: «È come una guer-
ra chimica, che ci manda feriti senza so-
sta. Camminiamo tutto il giorno, non ci
sediamo mai. Facciamo turni di dodici
ore senza pause per la pipì o per mangia-
re. Non c’è tempo di svestirsi e non pos-
siamo nemmeno permetterci di toglierci
la mascherina Ffp3 o 2 e sostituirla. Ce ne
danno una per dodici ore, anche se sono
garantite per otto. Non possiamo spre-
carne. E comunque non c’è tempo. I pa-
zienti stanno male. Bisogna controllare
l’erogazione di ossigeno, i parametri ogni
due ore, il bilancio idrico, più sommini-
strare antibiotici e antivirali. E ancora ci
aspettiamo il boom, arriverà il delirio.
Quasi la metà dei ricoverati ora ha qua-
ranta e cinquant’anni, abbiamo un pa-
ziente di trentotto. Quando passo vicino
a loro mi vengono crisi di pianto. Li guar-
do. Tutti uguali e non puoi far nulla. Dob-
biamo farvi un monumento, ci dicono.
Non mi vedono in faccia perché sono
chiusa nella mia protezione. Vedono solo
i miei occhi, riconoscono la mia voce. Ma
non posso piangere, perché devo conti-
nuare a lavorare. Allora faccio finta di
niente e continuo a lavorare. L’adrenalina
è così forte che per adesso tiene lontana
la paura».
Nemmeno a casa la giornata è più co-
me prima: «Arrivata a casa mi faccio una
doccia bollente di venti minuti per elimi-
nare ogni possibile residuo», spiega Ila-
ria: «Per precauzione, con il mio bimbo e
il mio compagno mi comporto come se
fossi positiva. Indosso sempre la masche-
rina chirurgica. Al piccolo ho spiegato
che per adesso è meglio evitare carezze e
bacini. Dormo sola. Lui un po’ si arrabbia.
Gli ho spiegato che torneremo a riabbrac-
ciarci quando passa».
Fabiola, un figlio di 11 anni che ha affi-
dato alla nonna, è un osso duro in un im-
portante pronto soccorso milanese. La
descrivono proprio così i colleghi. «Sia-
mo passati dai sintomi del raffreddore al
cristo, muoiono nel giro di una settima-
na. È stato scioccante», confessa lei: «so-
no cadute tutte le barriere che mi ero co-
struita. Trent’anni di pronto soccorso mi
hanno fatto vedere cose terribili, bambini
morti, la disperazione dei genitori. Ma
l’epidemia ha demolito ogni protezio-
A sinistra: il ricovero
di un paziente di
33 anni con sintomi
sospetti, portato
in ambulanza
all’ospedale di Brescia
iscritti all’Anaao e chirurgo all’Ospedale Papa Giovanni
XXIII di Bergamo, epicentro dell’emergenza. Proprio lì, in
tempi record, sono state liberate persino le sale operatorie
per fare spazio agli infettati. I pazienti con altre patologie
sono stati trasportati a bordo di ambulanze in ospedali
lontani. Tutto il personale è stato velocemente addestrato ad
affrontare l’emergenza: «Con i pazienti ho sempre indossato
i dispositivi di sicurezza, ma non con i colleghi medici,
da cui probabilmente ho contratto il virus. Così ci siamo
ammalati e siamo stati messi in quarantena. Sto abbastanza
bene, non sono preoccupato per la mia salute, piuttosto sono
angosciato perché non posso essere utile in corsia, dove la
situazione sta diventando insostenibile».
Le mascherine protettive sono esaurite e questo sta
provocando un aumento esponenziale dei contagi fra i
sanitari, che non vengono neppure testati. È questo il
problema maggiore, a cui le centrali di comando, il governo,
la protezione civile, le Regioni, non sanno rispondere.
Racconta un operatore socio-sanitario della Brianza,
responsabile della cura domiciliare agli anziani, che le
Asl hanno fornito a tutti un kit protettivo con una sola
mascherina chirurgica: «La sto riusando di giorno in giorno.
La indosso da oltre una settimana, ormai non credo serva
a qualcosa e non so neanche perché continuo a indossarla.
Forse la metto per non allarmare ulteriormente gli anziani
allettati, di cui mi occupo quotidianamente. Anche il camice
non è adeguato e ho il timore che il mancato ricambio dei
dispositivi di protezione possa contribuire a infettare i miei
pazienti: alcuni sono già stati ricoverati per Covid 19, così
come alcune colleghe. Il tampone? A me non l’hanno fatto
e neanche ad altre colleghe che lamentano febbre alta».
Stessa situazione per gli infermieri addetti al prelievo e per
tutti quelli non direttamente a contatto con gli allettati da
Covid-19: «Le commesse dei supermercati hanno molte più
protezioni di noi. La mascherina chirurgica non ci protegge
e neppure il camice. Ogni giorno andiamo a lavorare
terrorizzati, perché tutti ci stiamo ammalando. Scarseggiano
anche i tamponi: non sappiamo neppure se siamo positivi.
Io ho portato mia iglia a casa dei nonni, perché il rischio di
contrarre il virus per me è altissimo», racconta un’infermiera
del Veneto. Mentre le sue colleghe di Monza hanno fatto
una raccolta fondi e sono andate a recuperare delle nuove
mascherine in un negozio della città, che ha chiuso poche
ore dopo per esaurimento scorte. Uscite dal negozio hanno
commentato: «È come se ci avessero mandato in guerra con
arco e frecce, contro un nemico che imbraccia il fucile». n