L\'Espresso - 22.03.2020

(WallPaper) #1
V

oci dalla Libia, 16 marzo


  1. Inizio così, poi ci tor-
    no. Ancora qualche giorno
    fa, parlando degli incontri
    pubblici in programma per
    la primavera, c’era chi sperava non si
    dovessero cancellare. Ero scettico nel
    sentire quell’ottimismo, ma mi ero con-
    vinto che chi diceva che le cose sareb-
    bero tornate presto alla normalità fos-
    se, in realtà, il più scoraggiato di tutti. Sì
    perché continuare a progettare, nono-
    stante gli ostacoli isici, è un modo per
    mantenersi saldi, per non cedere. Per
    non lasciare spazio all’insoferenza, al-
    la tristezza. La pandemia ha cambiato
    radicalmente le nostre vite al punto da
    non consentirci più di pensare ad altro
    che al cambiamento. Alzare la testa e
    respirare, vedere cosa accade a causa o
    nonostante il virus, però, è una neces-
    sità che abbiamo. Una necessità vitale.
    Come restare in casa, come essere pru-
    denti. Ora sappiamo che restare in casa
    è l’unico modo che abbiamo per pren-
    derci cura l’uno dell’altro, ma allo stesso
    modo, nella condizione in cui stiamo
    vivendo, abbiamo al responsabilità di
    non dimenticare cosa accade lontano
    da noi. Oggi dobbiamo stare in casa,
    ma guardare lontano. I limiti isici non
    sono limiti nella possibilità che abbia-
    mo di nutrire interesse e occuparci del
    mondo.


La settimana scorsa ho raccontato
cosa avviene al tempo del coronavirus
nelle carceri italiane, che già sconta-
no un colpevole sovrafollamento. Mi
era sembrato un modo per dare voce
a chi, in questo momento più che mai,

non riesce ad averne. Allo stesso mo-
do, oggi, mi trovo a scrivere sulla Libia.
La Libia è scomparsa dai radar perché
riteniamo di avere altro a cui pensare,
eppure, quando aguzziamo la vista e
sintonizziamo le antenne, capiamo
quanto sia importante non recidere il
ilo del racconto e dell’ascolto. Anche
per continuare, in qualche modo, la
vita di prima.

E insieme alla Libia, dai nostri radar
sono scomparse anche tutte le persone
che in Libia sono schiacciate e impri-
gionate da un sistema che continua a
riguardarci. Ci riguarda, anche e so-
prattutto, per gli accordi che i governi
italiani hanno stretto con la Libia per
contenere i lussi migratori in qualun-
que modo, a qualunque costo e ingen-
do di ignorare il calibro criminale dei
loro interlocutori. Ma ora dalla Libia
non si parte quasi più, anche perché la
Libia, che da noi sembra lontana anni
luce, invece è proprio lì, a due passi, e
gli efetti della pandemia non ci hanno
messo molto a farsi vedere. Non ci resta
allora che prestare attenzione per pro-
vare a capire, con ogni mezzo disponi-
bile, cosa accade ora al di là del Medi-
terraneo, dove ancora si combatte una
guerra a bassa intensità, dove ancora
la società civile subisce scontri e dove
ancora, nei centri di detenzione, sono
rinchiusi migliaia di migranti prigionie-
ri in Libia, con il Mediterraneo sbarrato
dal virus e l’Unhcr che non riesce a ge-
stire i numeri delle evacuazioni. E allo-
ra Voci dalla Libia ci ofre la possibilità
preziosa di ascoltare il prima persona,
dalla viva voce di chi sta in Libia, cosa

L’antitaliano

accade ora lì, mentre il nostro mondo
si è fermato. Il 16 marzo, è intervenuto
in collegamento telefonico un ragazzo
di 28 anni, arrivato in Libia dal Darfur e
ora nel centro di detenzione di Zawiya.
Il ragazzo racconta di essere stato chia-
mato a Tripoli negli uici dell’Unhcr-
ma, nell’attesa di poter essere evacuato
in Niger, ha deciso di tonare nel centro
di detenzione perché stare fuori, a Tri-
poli, per lui - per loro - è ancora più pe-
ricoloso che rientrare. E, badate bene,
nei centri di detenzione le torture a sco-
po estorsivo continuano, le vessazioni
continuano, ma fuori è peggio. E poi
ancora, alla domanda: “Ti spaventa il
coronavirus?”, la risposta è quasi scon-
tata: “Sono prigioniero in Libia, non mi
spaventa più niente”.

Oggi questi ragazzi, quando sentono i
loro interlocutori italiani, si preoccupa-
no delle loro condizioni di salute, rac-
comandano prudenza; seguono ciò che
sta accadendo, non temono il coronavi-
rus più delle torture che subiscono nei
centri, ma riescono a guardare oltre la
loro condizione. No, non riescono, de-
vono guardare oltre la loro condizione.
Se non lo facessero, perderebbero ogni
speranza. Se non si preoccupassero dei
loro interlocutori in Italia, probabil-
mente smetterebbero di sperare di po-
ter essere evacuati in Niger e poi magari
in Canada o in uno stato europeo. Certo
che è strano dover anche noi aguzza-
re la vista per poter scorgere la luce in
fondo al tunnel. Ed è altrettanto strano
che quella luce la raggiungeremo prima
se non occuperemo il tempo a contem-
plarla. Q

Nessuno attraversa più il Mediterraneo. E i profughi rinchiusi nei campi

di Tripoli, spariti dai radar, vedono le loro torture prolungarsi all’ininito

Nei lager della Libia

ine pena mai

Illustrazione: Ivan Canu


Roberto Saviano
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