La Stampa - 28.03.2020

(Ben Green) #1

Sono stato cannibale


ma ora mi nutro solo


di battiti del mio cuore


Nei “Poemetti della sera” vita, morte, cosmo e divino

Aldo Nove
«Poemetti della sera»
Einaudi
pp. 96, € 10.50

ALDO NOVE

A

sei anni, in prima elementare, decisi
che avrei fatto lo scrittore. In particola-
re, lo scrittore di quella cosa miracolo-
sa che ho iniziato a divorare appena ho
iniziato a collegare tra loro le lettere e a capirne le
articolazioni: parlo della poesia. Era meraviglio-
so, allora come adesso, il gusto del suono delle pa-
role che scaturiva da qualcosa di più prossimo al-
la musica che non alla comunicazione di qualsivo-
glia messaggio. Capii presto che c’erano due cate-
gorie di libri. Quelli che attraverso le parole dice-
vano delle cose e quelli che erano direttamente
cose: i miei giocattoli più preziosi, le mie canzoni
preferite, camuffate da strani discorsi dove non
c’era niente da capire, ma solo il piacere di sentire
immediatamente il mistero di ciò che va oltre, pri-
ma della parola. A dodici anni avevo già letto
gran parte della poesia del Novecento, ed ero in
grado di scrivere sonetti e sestine tecnicamente
ineccepibili. Quanto ai contenuti, beh, mi interes-
savano poco. Erano composizioni musicali e tra-
sposizioni di sensazioni non definibili quanto po-
tenti. Erano lo specchio della mia anima infantile
e in quello specchio sempre nuovo sentivo di rige-
nerarmi ogni volta che la pratica del verso in qual-
che modo m’investiva, obbligandomi a sottosta-
re a una sorta di disciplina rigenerativa. Il battito
del cuore dirigeva l’orchestra. Le piccole meravi-
glie e le grandi paure del quotidiano gli orchestra-
li ed io che ne costruivo lo spartito. Uno stato
dell’anima che non ho mai più perso. Che forse ne-
gli anni si è fatto più smaliziato ma anche meno
potente.
Fu così che a quindici anni ebbi l’occasione di
far leggere dei miei testi (ne avevo accumulati
migliaia) a Franco Buffoni, che le apprezzò mol-
to e ne passò parte a Milo De Angelis, di cui a 13
anni avevo letto Millimetri, il libro che certo cam-
biò la mia vita: parole come spilli nella carne del
passato a traforare il futuro, insormontabili ar-
cani silenzi del dire. Milo fu con me generosissi-
mo, mi aiutò a raccogliere la mia prima raccolta
di versi che uscì quando ancora non avevo com-
piuto la maggiore età. Poi, qualche anno dopo,
la seconda scoperta fatale nella mia formazione
di «adepto» a un culto della parola che a tutt’og-
gi è mia croce e delizia infinita. La lettura di Poe-
sie pratiche di Nanni Balestrini fu per me una sor-
ta di Big-Bang. Tutto il linguaggio esplodeva sot-
to i miei occhi e si insinuava dentro di me sotto
l’egida dell’impossibile. Un impossibile rutilan-
te esercito di novità inafferrabili. Non capivo let-
teralmente nulla, ma quel nulla era di una tale
purezza da attrarmi di continuo. Ecco, Millime-
tri di Milo De Angelis e Poesie pratiche di Nanni
Balestrini erano i miei libri sacri, entrata e uscita
quotidiana da un mistero svelato e subito rivela-
to, ma sempre nuovo. Balestrini, come De Ange-

lis, mi incoraggiò molto quando lesse i miei testi
e in qualche modo mi spinse a esprimermi an-
che in prosa. A queste due figure, allora rigida-
mente contrapposte ideologicamente da para-
digmi teorici divergenti ma di cui coglievo solo
la comune, sbalorditiva capacità di meravigliar-
mi, devo buona parte della mia formazione. A
cui si aggiunsero molteplici figure di un caleido-
scopio sempre più vasto: amavo Carducci e San-
guineti, Paul Celan e Andrea Zanzotto, Giorgio
Caproni e Amelia Rosselli, Elio Pagliarani e Ted
Hughes.
Poi, quasi casualmente, il mio primo libro di
prosa, Woobinda (fortemente voluto da Nanni
Balestrini) e un inaspettato successo che, debbo
dire, mi collocò all’interno di un’area letteraria,
quella dei «cannibali», dei quali venni considera-
to uno dei massimi rappresentanti pur non rico-
noscendomi praticamente in nulla di quelle che
sarebbero state le sue peculiarità. Era soltanto
l’espressione di una parte del mio lavoro quoti-
diano di scrittura ma venni arruolato in quell’e-

sercito letterario e mi divertiva apparire sui gior-
nali e rispondere alle domande di interviste per
me improbabili su un personaggio che mi era da-
to da interpretare. Di giorno (era la metà degli
anni Novanta), fresco di laurea in filosofia mora-
le, facevo il giovane scrittore alternativo, mi si
chiedevano opinioni irrilevanti su questioni per
me irrisorie (a cui rispondevo con spirito del tut-
to ludico, «random») e di notte a leggere Dante,
Ariosto e Tasso. Era tutto buffissimo. Era tutto
come in una poesia di Palazzeschi. Ma il gioco
durò qualche anno. Mi si chiedeva di «schierar-
mi» ed io disertavo sempre. Mi si chiedevano li-
bri «violenti» e scrivevo lunghissimi poemi d’a-
more in prosa. Pure, la luna di miele tra la mia ri-
cerca e il fraintendimento che appiccicò addos-
so una certa notorietà durò a lungo. Eravamo se-
parati in casa, io e la mia fama.
Oggi, a 53 anni, quella fascinazione assoluta
per la poesia rimane forse l’unico punto fermo
della mia vita. E da una vita rimane la mia unica
forma di disciplina, di laboratorio interiore e di

prassi esistenziale. Tanto da avvicinarmi al valo-
re sacrale dell’alfabeto (e dunque la tradizione
ebraica, ma anche quella corrispettiva islamica,
sufi) e ad avvicinarmi agli infiniti deliri (nel sen-
so attribuito a questo termine da Deleuze e Car-
melo Bene) della mistica occidentale e orienta-
le. Infiniti rigagnoli che mi hanno sempre di più
condotto in prossimità dell’unico mare da cui
tutti, questo è la mia quotidiana meditazione,
proveniamo. E verso cui andiamo. Così, Poemet-
ti della sera è il risultato di uno scavo in cui argo-
menti sempre più ineffabili quanto strumenti
(la vita, la morte, il cosmo, il divino) hanno cer-
cato sodalizio con la massima semplicità espres-
siva, come sotto dettatura di un dio bambino
che alla fine del libro si rivela quale unico vero
autore di questo libro e di tutto il creato. Io, Aldo
Nove o Antonello Centanin o Antonio Centanin,
ho scritto Poemetti della sera sotto dettatura del
mio cuore che batte, cercandosi unisono al cuo-
re di tutto. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Henry Farrell
«Una splendida figliola come me»
(a cura di Sergio Claudio Perroni)
La Tartaruga
pp. 350, € 19

Aldo Nove

Diario di poesia

STEVE DELLA CASA

C


he cosa aveva affascinato François
Truffaut quando decise di trarre un
film, Mica scema la ragazza (1972),
dal romanzo Such a Gorgeous Kid Li-
ke Me scritto cinque anni prima da Henry Far-
rell? Forse la constatazione che lo scrittore
era alla base di tre film che avevano incontra-
to i favori della critica e del pubblico: Che fine
ha fatto Baby Jane? (1962), Piano piano dolce
Carlotta (1964, entrambi diretti da Robert Al-
drich) e soprattutto il misconosciuto I raptus
segreti di Helen diretto nel 1971 da Curtis Har-
rington, uno dei registi statunitensi preferiti
dai Cahiers du Cinèma che erano una rivista
cui Truffaut era molto legato. O forse il fatto
che in quel romanzo, raccontato però sotto la
forma dell’inchiesta giudiziaria, la figura ma-
terna era abominevole (come sappiamo, que-
sto è un passaggio quasi obbligato nel cinema
di Truffaut, frutto evidente dell’abbandono
che il regista dovette subire quando era bam-
bino). O anche la constatazione che la figura
femminile, nel film interpretata da Bernadet-
te Lafont, è una figura forte, ricca di sfaccetta-
ture, sprigionante un fascino mortale proprio
come lo era il personaggio interpretato da
Jeanne Moreau in La sposa in nero (uno dei
film più belli di Truffaut, tratto da un roman-
zo di Cornell Woolrich). O, infine, l’elemento
che il racconto di Farrell è un giallo in piena re-
gola che sfugge però alla meccanica ripetitiva
che spesso i romanzi di questo genere devono
esibire.
Tutti questi elementi possono avere una lo-
ro importanza. Ma leggere (nell’ottima tradu-
zione di Sergio Claudio Perroni, per i tipi di La
Tartaruga) il romanzo di Farrell ci mette da-
vanti a una vera e propria scoperta letteraria.
Farrell, lo sappiamo, ama descrivere mondi
chiusi attraversati da odi che provengono da
lontano e che trovano sfogo in crudeltà al tem-
po stesso feroci e represse: l’attrice-bambina
Bette Davis che infierisce sulla sorella Joan
Fontaine in Che fine ha fatto Baby Jane?, la cu-
gina Olivia de Havilland che vuole distrugge-
re la povera Bette Davis in Piano piano, dolce
Carlotta, Shelley Winters e Debbie Reynolds
madri di assassini e a loro volta frequentanti il
crimine in I raptus segreti di Helen. In questo
caso la protagonista, Camille, è in prigione ac-
cusata di un omicidio, e viene intervistata da
Carter, un sociologo interessato a ricostruire
il perché si possa pensare di uccidere qualcu-
no. Il romanzo raccoglie tutti i colloqui avve-
nuti tra i due, nonché le testimonianze di al-
tre persone: il cantante che con Camille ha
avuto una relazione e che ha trovato un inspe-
rato (e immeritato) successo, un ragazzo che
era stato compagno di scuola di Camille e an-
che la maestra che l’aveva seguita nei primi
anni di scuola, la suocera, persino il poliziotto
che l’aveva conosciuta qualche tempo prima
e due insopportabili mocciosi che vivono pro-
prio nel locale dove è ambientata gran parte
della vicenda.
Il risultato di questi colloqui è un crescendo
di degrado sociale, di maschi che desiderano
solo il corpo di Camille, di donne che la odia-
no e di racconti che mostrano la grande fragili-
tà della giovane e seducente donna. L’artifi-
cio letterario più interessante è che si immagi-
na che i vari colloqui compiuti dal sociologo
siano registrati con un magnetofono, e que-
sto consente di riprodurre il linguaggio al tem-
po stesso feroce e sboccato che caratterizza
tutti i personaggi, compresi due bambini che
vivono nel locale dove si esibisce il cantante e
dove Camille sogna a sua volta di poter vede-

re «il suo nome sui manifesti». Linguaggio cru-
do, violento, pieno di anacoluti (e mirabil-
mente reso per l’appunto dalla traduzione)
come specchio di una società abbruttita, dove
circola una sorta di sopraffazione primordia-
le, dove i sogni riguardano solo i soldi e il loro
possesso, dove le persone si comportano co-
me gli insetti molesti che un personaggio del
romanzo deve distruggere. Nel romanzo si
immagina che la trascrizione sia opera di
un’assistente di Carter, evidentemente lega-
ta a lui da una sincera passione che viene via
via sottoposta a prove sempre più dure (co-
me provano gli appunti che i due si scambia-
no dopo ogni colloquio e che sembrano una
sorta di contrappunto ironico a quel linguag-
gio così greve frutto di persone così abiette).
A ogni passaggio, il sociologo si trova a esse-
re sempre più coinvolto a livello emotivo nel-
la vicenda di questa ragazza, che era già sta-
ta ospite in cronaca nera quando, ancora
bambina, aveva causato la morte del padre e
che da adulta è circondata da uomini ignobi-
li, alcoolisti, egoisti, maniaci sessuali. Ma bi-
sogna stare molto attenti ai dettagli, perché
gli stessi possono essere interpretati in mo-
do molto diverso.
È caratteristica di Farrel mescolare lo spac-
cato di vita dei suoi personaggi con il mondo

dello spettacolo. In Che fine ha fatto Baby Ja-
ne? si parla del mondo del cinema, delle attri-
ci bambine, del passaggio inesorabile dal mu-
to al sonoro. In Piano piano dolce Carlotta il
suono di un carillon fa da contrappunto sono-
ro ai deliri della protagonista, mentre in I rap-
tus segreti di Helen le due protagoniste aprono
una scuola per aspiranti divette. In questo ca-
so, lo spettacolo che fa da contrappunto alla
vicenda riguarda il mondo della musica coun-
try, apparentemente spensierato e sano in
realtà attraversato da pulsioni forti e tensioni
sotterranee. Anche il cosiddetto «impegno ci-
vile» di alcune di queste canzoni è raccontato
nel romanzo di Farrell con dissacrante ironia:
il cantante legato a Camille, infatti, decide di
scrivere un pezzo sulle angosce di chi è in car-
cere prevedendo con grande cinismo il succes-
so commerciale che potrà scaturirne. Nel film
di Truffaut, la canzone eseguita da Bernadet-
te Lafont è scritta da Jacques Datin, chanson-
nier che abitualmente scriveva per Juliette
Greco e Françoise Hardy: ha tempi di marcet-
ta e parole volutamente sboccate, proprio co-
me le composizioni che Camille interpreta in
carcere accompagnandosi con il banjo e che
hanno un ruolo molto importante nella defini-
zione della sua sorprendente personalità. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

MIRCO TONIOLO/ERREBI / AGF

Aldo Nove è nato a Viggiú, in provincia di Varese, nel 1967. I suoi libri di poesia pubblicati da Einaudi
sono: «Nelle galassie oggi come oggi. Covers» (con Tiziano Scarpa e Raul Montanari), «Maria»,
«A schemi di costellazioni», «Addio mio Novecento». Da Crocetti è uscito « Fuoco su Babilonia!».
I libri che lo hanno fatto conoscere come narratore sono «Woobinda e altre storie senza lieto fine»
(Castelvecchi) e «Superwoobinda» (Einaudi Stile Libero); quello più recente è «Il professore di
Viggiú» (Bompiani )

In versi e in prosa

La poesia «massimalista» di Aldo Nove affronta i temi della vita e
della morte, e della generazione: i rapporti e gli affetti familiari, da
cui sempre si parte, si sciolgono nelle ere geologiche e nelle «onde
senza fine da cui proveniamo», mantenendo lo stesso calore
emotivo. Il sentimento panico è fortissimo: «Il giorno della mia
morte | ... | canteranno con me i fiumi, | le pietre, ogni atomo canterà
| e avrà la mia voce | ... | E credo e so che ogni differenza è |
apparente, e il giorno | della mia morte tornerà | niente... | Il giorno
della mia morte | sarà il giorno del mio matrimonio | con ogni
istante. Nulla | sarà piú distante». Il libro raccoglie poesie scritte dal
2015, soprattutto in forma di poemetto che permette di ritmare in
versi brevi, ritmati e incalzanti la pulsazione e il respiro di tutte le
forme viventi

La raccolta

Henry Farrell, pseudonimo di Charles Farrell Myers (Madera, 1920 – Pacific Palisades, 2006),
è stato uno scrittore e sceneggiatore, autore di libri gialli e noir. Fra le sue opere che hanno avuto una
trasposizione cinematografica il romanzo «Che fine ha fatto Baby Jane?» e il racconto che ha ispirato
«Piano... piano, dolce Carlotta». Ha scritto la sceneggiatura del film «I raptus segreti di Helen»

Scrittore e sceneggiatore

Bernadette Lafont in «Mica scema la ragazza» di François Truffaut (1972)

Henry Farrell

L’autore da (ri)scoprire

La ragazza non è scema e tutte la odiano

Gli uomini invece desiderano il suo corpo

Camille è in carcere per omicidio, un sociologo ascolta lei e chi la conosce: dall’ex alla suocera

Fra degrado sociale, sogni infranti e musica torna il romanzo da cui Truffaut ha tratto il celebre film

XVIII LASTAMPASABATO28 MARZO 2020
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