La Stampa - 22.02.2020

(Nandana) #1

.


Da martedì al Castello la collezione dell’ex ambasciatore svizzero a Pechino Uli Sigg

La nuova Cina a Rivoli

L’arte contemporanea


tra Mao in ciabatte e Ai Weiwei


I


l pastore che raccoglie le
pecore, il drone che sorvo-
la la gente, le vite degli al-
tri dentro ai cassetti e la Ci-
na che cerca di tenere il
controllo. Pure adesso,
mentre un virus supera qual-
siasi comando. Una mostra al
Castello di Rivoli racconta co-
me si è arrivati fino a qui, a un
Paese che è cresciuto grazie
all’apertura e governa con la
censura.
Di fronte al collezionista, a
cura di Marcella Beccaria,
inaugura il 25 febbraio e apre
un mondo perché l’uomo che
ha raccolto migliaia di opere
contemporanee cinesi, che
ha dato il via a un mercato pri-
ma inesistente, svelato una ve-
na nascosta si chiama Uli

Sigg, il primo straniero a inve-
stire nella Cina, meta ignora-
ta alla fine degli anni Settan-
ta. Allora non ci voleva anda-
re nessuno.
Sigg invece si è trasferito là,
a esportare scale mobili per la
Schindler nel 1979: la Cina
aveva bisogno di muoversi do-
po la morte di Mao e lui l’ha aiu-
tata a farlo, «credo per questo
nessun dirigente ha mai cerca-
to di interferire con la mia ricer-
ca artistica», che comprende
attivisti come Ai Weiwei. Sigg
è stato ambasciatore svizzero
a Pechino dal 1995 al 1998, ha
creato contatti, relazioni e ami-
cizie con i creativi più romanti-
ci e quelli più ironici, ha sfrutta-
to il suo punto di vista privile-
giato per creare il catalogo del
presente cinese ed è rimasto
fuori da quella rete di sorve-
glianza in cui ha saputo identi-

ficare punti forti e buchi: «Fino
al 2012 si è visto un chiaro per-
corso verso l’apertura, che ri-
guardava anche la libertà di pa-
rola, poi l’ossessione per un im-
possibile dominio dei social
media ha frenato quel tipo di
evoluzione e con Xi Jinping il
trend si è interrotto, ma il cam-

biamento continuerà».
Si impone da solo, anche
morso da una cultura repressi-
va, la stessa che impedisce a
Yu Youhan di esporre in pa-
tria il ritratto di Mao. «Il gran-
de» non può tuttora essere vi-

sto in pantofole, perso tra i fio-
ri e seduto vicino al vaso dove
sputa. Il quadro però può sta-
re comodo a Rivoli, sulla stes-
sa parete che ospita uno dei
tantissimi ritratti di Sigg, quel-
lo di Fang Lijun con le sue figu-
re rosse. «Non sono così narci-
so, ci sono tanti me perché so-
no regali degli artisti» e prove
di rapporti strettissimi «qual-
che volta li ho scoperti, altre li
ho protetti, soprattutto ho vo-
luto conoscere ogni autore,
ascoltarne la storia». Così ha
inaugurato una corrente, una
delle più quotate del contem-
poraneo e questa è l’ultima oc-
casione per vedere in Europa
molti dei lavori esposti. L’uo-
mo che parla con i cinesi, tutti
i cinesi, ha donato 900 pezzi
del suo tesoro al museo M+
Sigg che aprirà ad Hong Kong
l’anno prossimo. Sicuro che ri-

spetteranno i tempi con una ri-
volta in casa e la lotta contro il
Covid-19? «La Cina va avanti,
ci sono centinaia di persone al
lavoro proprio in questo mo-
mento. Lo stato potrà anche
soffrire per un inevitabile arre-
sto economico, però il loro si-
stema era ancora in espansio-

ne prima di bloccarsi a causa
di questo male e si riprende-
rà». Non per forza nel modo
che ci aspettiamo, basta guar-
dare i chili di Coca Cola fatti
bollire per un anno e trasfor-
mati in carbone da He Xian-

gyu che non denuncia pure i li-
miti dell’occidente. «La nuo-
va generazione è molto diver-
sa dalla precedente, spingerà
sui diritti, ma non è per forza
come la immaginiamo noi. So-
no molto critici, considerano
l’Europa ferma, vecchio stile.
Non siamo esattamente il lo-
ro modello di società».
I giovani di cui parla sono
gli stessi che contestano il mo-
do in cui oggi la Cina ha chiu-
so certe province senza il so-
stegno necessario dopo l’epi-
demia di coronavirus e pure
quelli che si autoconfinano
con un senso di responsabili-
tà profondo. Reazione che
qui, forse, abbiamo dato per
scontata.
«Non c’è una soluzione alla
paura, non credo che certi epi-
sodi siano legati al razzismo,
le persone si spaventano e rea-

giscono di impulso». Per Sigg
gli orientali in Europa non so-
no mai stati ghettizzati: «Voi,
in Italia, li percepite come la-
voratori nel settore tessile
noi, in Svizzera come dei turi-
sti, mai come un problema.
Qualsiasi altra nazione colpi-
ta da un virus così contagioso

sarebbe stata respinta». E or-
mai i casi sono ovunque, solo
che la Cina resta il punto ros-
so sulla mappa e lotta per ria-
vere i propri connotati, or-
mai sono confusi da una ma-
scherina.

Davanti al collezionista, ri-
mette gli accenti sulla persona-
lità, sulla capacità di aggirare i
divieti senza rischiare l’arre-
sto, su una serie di documenti
che registrano le disobbedien-
ze dal 1949 al 1979, archivi di-
ventati installazione con Mao
Tongqianq. Schedari pieni di
pensieri proibiti come quello
di avere più di un figlio. Un so-
gno che esplode dal ritratto di
famiglia di Zang Xiaogang,
con la macchia di colore che
vince sul grigio. Mentre si pun-
ta al futuro, attenzione a non
inciampare nel cadavere di Ai
Weiwei a grandezza origina-
le. Lui è vivo e accompagnerà
la mostra, la sagoma a terra è
La morte di Marat.
La Cina gioca con i propri di-
fetti e graffia pezzi di libertà,
anche dalla quarantena. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Teho Teardo era entrato
nell’archivio della Fondazione
Feltrinelli, a Milano, per vede-
re una copia dell’Utopia di Tho-
mas More del 1516. Cercava
ispirazione nel passato per un
progetto che puntasse al futu-
ro. Tra gli scaffali alti tre metri,
un piano sotto terra, tenuti a
temperatura costante e illumi-
nati al neon, ha visto una serie
di libri di grandi dimensioni,
tutti rilegati nella stessa manie-
ra. «Mi hanno detto che era
l’Enciclopedia di Diderot e d’A-
lambert. Non solo: me l’hanno
fatta sfogliare. Mi sono un po’
commosso. Poi, a sorpresa, vi
ho trovato dentro musica, tan-
ta musica, partiture di cui igno-
ravo l’esistenza. Ho detto a
Massimiliano Tarantino, il di-
rettore della Fondazione: sen-
to che è il caso di cercare in que-
sti libri l’idea per il mio prossi-
mo lavoro».
Il nuovo lavoro di Teho Tear-
do esce il 6 marzo, si intitola El-
lipses dans l'harmonie. Dieci
brani musicali ispirati all'Ency-
clopédie, assolutamente con-
temporanei, orchestrali ed
elettronici, inclassificabili co-
me il suo autore, che infatti è
più celebre all’estero che in Ita-
lia, anche se magari molti di
noi conoscono le sue eccellen-
ti colonne sonore dei film di
Salvatores, Chiesa, Sorrenti-
no, Molaioli, Vicari, oppure il
suo personalissimo rock nei di-
schi con Blixa Bargeld («Ne ab-
biamo un altro pronto e da
maggio saremo in tour»), ne-
gli spettacoli con Enda Walsh,
il drammaturgo irlandese che
scrisse Lazarus con David Bo-
wie. «A questo nuovo album -

racconta - ho lavorato due an-
ni, con molti momenti di scora-
mento. La strada l’ho trovata
quando ho steso per terra le fo-
tocopie ingrandite delle pagi-
ne dell Encyclopédie. Ho capi-
to che c’era un piano. Era una
macchina del 1700 per fare
musica. L'ho usata per scrivere
musica di oggi. È stato come la-
vorare con un fantasma, come
entrare in una casa del ‘700 e
trovare le tracce di chi l’ha abi-
tata. Come andare a bottega
da un artista di allora. Sono
pieni di vita quei libri, sono l’a-
stronave di Kubrick che vola
nello spazio oscuro di 2001 e
che contiene tutti i codici cono-
sciuti. Li ho studiati, seguiti, so-
no entrati dentro di me. Poi li
ho fatti saltare in aria, ho ab-
bandonato tutte le regole e ho
iniziato a scrivere».
Studiando quei codici illu-
ministi, dice Teardo, ha ritro-
vato se stesso: «In questi libri
c’è tutto ciò che l’uomo allora
sapeva di sé e del mondo, del
rapporto tra l’uomo e il mon-
do. Ci ho visto un parallelo con
l’oggi, con gli oscurantismi
che affrontiamo ora, il razzi-
smo, la discriminazione nei
confronti delle donne, il capita-
lismo fallimentare che fa lavo-
rare le persone in condizioni al-
lucinanti. Ho capito che un illu-
minismo radicale sarebbe an-
cora rivoluzionario. Ci sono di-
battiti importanti da fare. È il
caso di ricatalogare tutto, ri-
mettere in ordine. Dare i nomi
alle cose. È l’aspetto politico di
questo disco, che viene prima
di quello musicale. È anche
per questo che Ellipses dall’11

marzo - a Milano, alla Fonda-
zione Feltrinelli dove è nato,
poi in altri sei città, le ultime
delle quali sono Genova, il 18
marzo, e Rivoli, il 19 - divente-
rà un concerto. Voglio portar-
lo in giro, cerco il confronto».
Teardo, classe 1966, vive a
Roma da una quindicina d’an-
ni. Viene da Pordenone. Ha co-
minciato giovanissimo, nella
prima metà degli anni 80, con
una sorta di rumorismo molto
originale, istintivo: «Da ragaz-
zino mi piaceva così tanto
ascoltare dischi che ho deciso
che ne avrei fatto uno. Non sa-
pevo niente, suonavo la chitar-
ra ma non sapevo neppure che
fosse necessario accordarla.
Appartengo alla categoria dei
musicisti autodidatti, che pri-
ma fanno una cosa e poi studia-
no, cercano di capire cosa han-

no fatto. Stavo in provincia,
non mi confrontavo con nessu-
no, e questo mi ha aiutato a
mantenere una furia espressi-
va indomabile. Il primo disco
l’ho fatto a 17 anni con quella
chitarra scordata, un’eco a na-
stro, due carcasse di lavatrici
recuperate in discarica. Ho pre-
so del carburo di calcio, regi-
stravo le esplosioni di gas di
carburo dentro le lavatrici.
Usavo trapani, un martello
pneumatico, microfoni. Ho fat-
to un album totalmente atona-
le senza pormi mai il problema
della tonalità. Era una scelta
estetica, spontanea. Il disco è
uscito, è andato in giro per il
mondo e ha creato una serie di
reazioni che mi hanno messo
in relazione con altri. Adesso
posso lavorare con un’orche-
stra, e mi piace molto. Però è
come se con me avessi sempre
quel carburo, che può esplode-
re da un momento all’altro».

ANTONIO MANISCALCO


LA STORIA


Il grande direttore del Nouvel Observateur scomparso

Bernard-Henri Lévy

“Jean Daniel , amico e maestro”


EPA


Jean Daniel (1920 – 2020) insieme con Bernard-Henri Lévy

ANTONIO MANISCALCO COURTESY CASTELLO DI RIVOLI


ANTONIO MANISCALCO COURTESY CASTELLO DI RIVOLI


BERNARD-HENRI LÉVY


R


icordo Jean Daniel,
in rue d'Aboukir,
nel 1969, la prima
volta che l'ho visto.
Ero andato a pro-
porgli di parlare
all'École Normale Supérieure,
allora in stato di insurrezione
permanente. Ho dimenticato
perché poi non se ne fece nulla.
Ma ricordo che era magnifico.
Molto prestigioso. E aveva già,
malgrado la sua giovinezza, la
stessa voce gutturale, sorda,
leggermente spenta, che sem-
brava alludere a chissà quale
segreto dolore.
Ricordo il mio turbamento
al pensiero che quell'uomo co-
sì regale, che sarebbe diventa-
to uno dei miei maestri di ener-
gia e di vita, fosse il gemello
astrale di mio padre: nato lo
stesso anno; lo stesso giorno;
uno a Blida, l'altro a Mascara,
nella stessa Algeria; e, più stra-
no ancora, con un'affinità nelle
maniere, nei tratti, così come
nel modo di rivolgermi la paro-
la, molto lentamente, come se
non avessi nulla di meglio da fa-
re che ascoltarli pensare.
Ricordo anche che quel gior-
no ero troppo intimidito per az-
zardarmi a informarlo di que-
sta sorprendente corrispon-
denza. Né, ancor meno, della
coincidenza che aveva voluto
che, qualche anno prima, que-
sti gemelli identici fossero rico-
verati nello stesso momento in
due stanze quasi adiacenti del-
la stessa clinica Hartmann a
Neuilly. Avevo 11 anni. Guar-
davo, di nascosto, quando la
sua porta era socchiusa e il mo-
mento della visita mi obbliga-
va a lasciare la stanza di mio pa-
dre, questo vicino di cui le infer-
miere del piano mi sussurrava-
no che era un giornalista e che
era stato ferito, a Biserta, dall'e-
sercito francese.
A furia di spiarlo e di osserva-
re l'incessante sfilata dei suoi vi-
sitatori ero giunto alla conclu-
sione che un giornalista è un Si-
gnore al cui capezzale si avvi-
cendano ministri, avventurie-
ri, un futuro presidente della
Repubblica, premi Nobel per
la letteratura, attrici e attori,
nonché - ultimo ma non meno
importante - un balletto di don-
ne attraenti e premurose.
Ricordo come, in seguito, ho
visto il suo Nouvel Observateur
come un Côté de Guermantes
degno di galvanizzare, tra i so-
pravvissuti della stagione della
sinistra, le nobili ambizioni e i
residui di speranza. Non si tro-
vavano forse lì, mescolati, il gu-
sto per le parole e il peso delle
idee? La politica nel suo senso
più nobile? Gli scrittori più illu-
stri? E poi quella chimica di cui
nessuno ha mai ritrovato la for-

mula che faceva sì che la tua
prosa stesse fianco a fianco con
quella di Gilles Deleuze e Mi-
chel Foucault, Castor e Castro,
Pierre Mendès France e
Jean-Paul Sartre, Roland Bar-
thes e Michel Cournot ...
Perché ricordo, quando uno
portava la sua opera nei locali fa-
tiscenti, tutti un corridoio, di
rue d'Aboukir, un percorso ini-
ziatico di cui ogni tappa ricorda-
va le grandi scene de L'educazio-
ne sentimentale o delle Illusioni
perdute. Era necessario ottene-
re i favori di Guy Dumur, il criti-
co-gentiluomo che, nei giorni
sì, ti dava la sensazione che Ione-
sco e Beckett fossero già amici
intimi. E quelli di Jacques-Lau-
rent Bost, sartriano tormenta-
to, pilastro della sinistra tenden-
za Nausea, che ti convocava per
spiegarti cosa rivelava quella
virgola, collocata in modo biz-
zarro sulla tua relazione con il
pratico-inerte o con il seriale.
Ma non era ancora nulla e
una volta superate queste pro-
ve, ecco l'esame finale, l'orda-
lia dove Alain Chouffan mi ave-
va avvertito che tutto si sareb-
be deciso: il re Jean, questo Ga-
ston Gallimard del giornali-
smo che, altezzoso e incuran-
te, ti sottoponeva all'interroga-
torio delle affinità: a che punto
eravamo con Stendhal e Gide?
conoscevi a memoria le stazio-
ni di Chateaubriand nel suo
viaggio verso Gerusalemme?
preferivi sbagliare con Sartre o
essere nel giusto con Aron? ed
eri dalla sua parte, con Jean Da-
niel, nella disputa tra Edmond
Maire e Georges Séguy, Louis
Aragon e André Breton? Ricor-
do che quelli che trionfavano
su questa serie di prove erano
definitivamente cooptati ed en-
travano, avvolti dal suo mor-
morio narcisistico e generoso,

nella categoria benedetta de-
gli «amici dell' Observateur».
Ricordo un Jean Daniel che
coltivava il bellissimo proget-
to di fare la Storia oltre a com-
mentarla. E ricordo una Storia
che, da brava ragazza, a volte
gli restituiva la palla. In che
modo, altrimenti, avrebbe
avuto il potere di far coesiste-
re, nelle stesse colonne, colo-
ro che erano arrivati alla politi-
ca per le vie dell'anticoloniali-
smo e quelli che venivano
dall'anti-totalitarismo? I fau-
tori della prima sinistra e quel-
li della seconda? Gli amici di
François Mitterrand e i nostal-
gici di Pierre Mendès-France?
E a quale altro direttore di rivi-
sta Mitterrand, diventato pre-
sidente, ha mai fatto così tan-
te confidenze?
Ricordo che tutti i suoi edito-
riali erano sempre scritti come
se ogni settimana avesse visto
passare lo spirito del mondo.
Ma sarebbe sbagliato ironizza-
re. Perché lo spirito di serietà
che lo animava, l'ammissione
pubblica dei suoi dubbi e del
suo dolore, il suo modo di dire
«Noi, L'Observateur» come se
stesse parlando di un partito o
di un paese, non hanno forse
protetto l'eccezione francese
che era, in effetti, il suo giornale
da questo male del secolo che è
lo spirito della derisione ghi-
gnante?
Ricordo il momento in cui la
vita politica a poco a poco si ba-
nalizzò, Le Nouvel Observa-
teur cessò di essere, per parla-
re come Sainte-Beuve, questa
Kamchakta giornalistica, que-
sta conventicola, e cominciò a
diventare un settimanale co-
me gli altri, a volte meglio, a
volte meno buono - e Jean Da-
niel una sorta di Borbone di
una sinistra diventata orleani-

sta e decisamente prosaica.
Ricordo, quando uscì Arcipe-
lago Gulag, una vera e propria
lite sui comunisti e sulla guer-
ra che dichiararono contro Sol-
zhenitsyn: ma forse era inevi-
tabile poiché viveva nel idea
(ai miei occhi, un'illusione)
che la sinistra fosse una casa
di cui lui doveva conservare le
due anime?
Ricordo un dibattito sull'e-
braismo che è apparso tre an-
ni fa in questo Obs che rimar-
rà, fino alla fine, il suo giorna-
le: onore per me; dono inesti-
mabile che mi ha dato; ma cre-
do che una parte di lui abbia
approfittato della circostanza
per chiarirsi con la parte tor-
mentata di se stesso e, senten-
do scendere la sera, liberarsi
dalla sua «prigione ebraica».
E poi ricordo il nostro ultimo
incontro, in un pomeriggio inver-
nale, poche settimane fa, a casa
sua: si tiene dritto sulla sedia e
ha riacquistato la sua postura da
lottatore; il pensiero è chiaro; ha
progetti editoriali; parla della
compagnia degli alberi e del de-
serto del Marocco che vorrebbe
rivedere; scherza; rimprovera;
ricorda vecchi equivoci che pre-
tende di chiarire; s'interroga, co-
me ogni volta, su questo gemello
che conosceva solo attraverso il
ritratto che ho fatto di lui ma la
cui esistenza ha intrecciato tra
noi, per mezzo secolo, questo le-
game di filiazione così singolare;
sussurra che la cosa peggiore del-
la morte sarebbe di non poter ve-
gliare su Michèle. Ma osservo
che i giochi sono fatti. All'improv-
viso, sembra galleggiare nello
straripamento della sua vivida
memoria. Questo immortale si
sta rendendo conto che alla fine,
malgrado tutto, dovrà partire?
Traduzione di Carla Reschia —
© RIPRODUZIONE RISERVATA

La Maddalena di Della Robbia è tornata a Berlino

Torna in Germania la statua della Maddalena di An-
drea della Robbia sottratta dai nazisti a una fami-
glia ebrea tedesca e erroneamente consegnata all'I-
talia nel dopoguerra. Ieri a Berlino il ministro Dario
Franceschini ha partecipato alla cerimonia di ricon-
segna dell'opera ai legittimi proprietari.

Uli Sigg vicino al suo doppio creato da Ai Weiwei, «Lettore
di giornale», 2004. A sinistra: Liu Wei, «Verso Est», 2010
e la stanza con Fang Lijun, «Ritratto di Uli Sigg», 2005;
Qi Zhilong, «Ritratto di una ragazza in verde» e Yu Youhan,
«Chairman Mao», 1996. Sotto: Miao Ying, «Afasia», 2019

Il collezionista
«Un Paese dinamico
sospeso tra progresso
e repressione»

“Vite”, le grandi interviste su Sky TG24

“Vite – L’arte del possibile”, su Sky TG24 a partire da
lunedì 24 ogni due settimane alle 20.30 (su Sky Arte
il martedì alle 20.45) è la serie di interviste ideate e
realizzate dal direttore di Sky TG24 Giuseppe De Bel-
lis. Tra gli intervistati Paolo Sorrentino, Renzo Piano
(foto), Brunello Cucinelli e Massimo Bottura.

L’ultima occasione
di vedere in Europa
i pezzi destinati al
museo di Hong Kong

«I giovani
spingeranno sui
diritti, ma non sono
come ce li aspettiamo»

© AI WEIWEI


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