Internazionale - 28.02.2020

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Le opinioni


giornalistica, quindi finalmente abbiamo sentito par-
lare alcune delle vittime. Ma non esistono solo gli uo-
mini potenti e le donne dell’industria cinematografi-
ca. Esistono anche tanti casi di donne messe a tacere
ogni giorno dovunque. Come Tiffany Marie Lazon di
Albany, nell’Oregon: dopo che il suo dna è stato trova-
to su una sega circolare il marito è stato accusato di
averla uccisa. Quattro anni prima Lazon aveva rivela-
to a un giudice che il marito stava cercando di ucci-
derla e il magistrato le aveva risposto che non era una
testimone credibile.
La maggior parte di queste storie non arriva mai
sui giornali o in televisione. Altre volte i mezzi d’infor-
mazione ne sono pieni. Pochi giorni fa Donald
Trump, Julian Assange, Weinstein, l’imprenditore
pedofilo Jeffrey Epstein (che si è suicidato nel 2019), il
proprietario di Victoria’s secret Leslie Wexner e Mi-
chael Bloomberg erano tutti sulla prima pagina di un
quotidiano, insieme all’attentatore tedesco che ha
ucciso anche la madre. Nulla lasciava intendere che
le storie della maggior parte di questi personaggi ri-
guardassero lo stesso tema: la violenza di genere e il
tentativo di far tacere le vittime.
Trump ha comprato il silenzio dell’attrice porno
Stormy Daniels poco prima delle elezioni del 2016,
pagandola perché non raccontasse la sua storia (in
seguito ha parlato). È illuminante sapere che l’avvo-
cato Alan Dershowitz era amico di Epstein ed è amico
di Trump e ha fornito assistenza legale a entrambi, al
primo nel processo per abusi sessuali e stupro e al se-
condo per il procedimento di impeachment. A propo-
sito di quest’ultimo, la storica Heather Cox Ri-
chardson ha scritto: “Eccetto che per Trump e i suoi
sostenitori, questo processo non ha niente a che fare
con la verità ma con il predominio e il potere. Costrin-
gere qualcuno ad accettare una cosa falsa rafforza il
potere della persona che mente”.
Essere impotenti significa che i tuoi fatti e le tue
verità possono essere sconfessati dai potenti, perché
preferiscono che questi fatti e queste voci non siano
ascoltate. Questo alla fine significa che la verità, i fat-
ti e le prove possono prevalere solo in una democra-
zia. Non una democrazia in senso elettorale, ma in un
mondo in cui le differenze di potere non influiscono
sulle storie che si possono raccontare, in cui i fatti pre-
valgono sulla base della loro forza intrinseca, non
sulla base dello status sociale di chi li denuncia.
Immaginate come sarebbero andate le cose se
Harvey Weinstein avesse commesso il primo abuso
sessuale in un mondo in cui la sua vittima aveva la sua
stessa credibilità e le sue stesse risorse. Probabilmen-
te non ce ne sarebbe stato un secondo, né ci sarebbero
state sei donne pronte a testimoniare contro di lui in
tribunale, né novanta donne disposte a raccontare
una storia a cui nessuno avrebbe dato spazio prima
che nel 2017 cambiasse qualcosa grazie al #MeToo. È
ancora più probabile che, in un mondo simile, non ci
sarebbe stato neanche il primo abuso. Sentendo que-
ste storie, penso a quando da giovane non avevo voce,
non perché non potessi parlare, ma perché gli altri
non mi avrebbero ascoltato. Per quanto mi riguarda,


volevo che Weinstein fosse condannato e mandato in
prigione non per vendetta – anche se lo merita – ma
per avvertire gli uomini come lui che l’epoca dell’im-
punità è finita, che ci sono persone disposte ad ascol-
tare le donne e che a volte quello che dicono ha delle
conseguenze. Il cambiamento più importante lo ve-
dremo in quello che non possiamo misurare: in tutti i
crimini che non saranno commessi perché i loro auto-
ri avranno paura delle conseguenze, ora che ci sono.
Tutte le potenziali vittime sapranno che, se parleran-
no, qualcuno le starà a sentire. Ma vorrei qualcosa di
più di questo, vorrei una società in cui il desiderio e il
diritto di commettere abusi sessuali vadano scompa-
rendo, non per paura ma per rispetto dei diritti e
dell’umanità delle vittime.
Tuttavia, perfino l’idea che la condanna di Wein-
stein sia uno spartiacque è ottimistica: dagli uffici ai
campi e alle università, la violenza sessuale colpisce
ancora milioni di donne direttamente o rende la loro
lotta per la sopravvivenza un lavoro quotidiano. Ab-
biamo democratizzato il racconto di queste storie fino
al punto che adesso a volte sentiamo parlare delle
conseguenze della disuguaglianza, ma non abbastan-
za per mettere fine a quelle storie. Noi donne, o alme-
no alcune di noi, hanno cominciato un processo che
conta più di qualsiasi altra cosa. Quello che è successo
a Weinstein forse è un passo avanti, ma abbiamo an-
cora tanta strada da fare. u bt

Il cambiamento


più importante


lo vedremo


in quello che non


si può misurare:


in tutti i crimini


che non saranno


commessi


perché i loro


autori avranno


paura delle


conseguenze


REBECCA SOLNIT
È una scrittrice statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato
in Italia è Chiamare le cose con il loro nome (Ponte alle
Grazie 2019). Questo articolo è uscito sul New York Times.
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