Vanity Fair Italia 20170208

(Romina) #1
Non solo non c’era trama, ma tanto per chiarire come stavano
le cose, Bob Wilson avvertì il pubblico che poteva entrare e usci-
re quando gli pareva. Tempo dopo, lo stesso Glass disse di non
averla mai sentita tutta di fila. Era quel genere di cose che, ai tem-
pi, ma in fondo anche adesso, trovavo irresistibili.
Quanto alla musica, prendo un esempio, forse il più famoso.
Knee Play #5. Si tenga conto che venivamo da Traviata, Puccini,
Moses und Aron di Schoenberg e poi quelle cose là dove l’intelli-
genza si stava autosoffocando. Quel che succedeva in Knee Play
#5 era che il coro cantava, su poche note ribattute e elementari,
il seguente testo:
1 2 3 4
1 2 3 4 5 6
1 2 3 4 5 6 7 8
Be’, in inglese, ovviamente. (Non ridete, ecco le prime paro-
le delle Nozze di Figaro: Cinque... dieci... venti... trenta... tren-
tasei... quarantatré... Se non ci credete, controllate). Poi entra-
va una voce femminile che parlava. E dopo, un’altra, anche lei a
parlare, ma parole differenti.

I


n teoria doveva venirne fuori un ca-
sino fastidioso, ma la verità invece
era che ti ritrovavi in un paesaggio
stranissimo dove era tutto molto sofisti-
cato, sperimentale, utopistico, cervelloti-
co ma anche naturale, piacevole, emozio-
nante. Era un posto dove avresti potuto
abitare, non solo un laboratorio dove fa-
re esperimenti quando ti sentivi intelligen-
te, se capite cosa voglio dire.
Tutto si muoveva in modo strano, per successive piccole trasfor-
mazioni, sprigionate dal rito della ripetizione, che determinava
minuscole trasformazioni facendo muovere il tutto in un modo
strano, che procedeva per trasformazioni alle volte minuscole, ot-
tenute attraverso la ripetizione di alcuni blocchi, che nel tempo si
trasformavano in modo minuscolo generando una sorta di stra-
no movimento al rallentatore che inanellava trasformazioni anche
piccolissime e lo faceva ripetendo in continuazione lo stesso ma-
teriale sonoro, solo modificandolo in modo appena percettibile
così da generare l’effetto di un movimento immobile. Così.
A un certo punto entrava un violino e poi una voce di un uo-
mo, anche un po’ selvatica, non da attore – sembrava uno pre-
so in un bar. E leggeva qualcosa, un testo neanche troppo me-
morabile, una cosa su due innamorati su una panchina al par-
co: ma con la voce di uno che stava recitando una saga antica,
un poema ancestrale.

E


ra tutto sbagliato, in un certo senso. Non poteva stare in
piedi. E invece era bellissimo – o almeno, era abbastanza
bello in un modo bellissimo. Lo penso ancora adesso, che
pure tanti anni sono passati (quaranta) e il paesaggio sonoro del
mondo è radicalmente cambiato: è stupefacente ma è musica
che potrei fare ascoltare a mio figlio senza perdere troppi
punti, magari guadagnandone persino un po’. Chissà
com’è avere 80 anni e vedere che nelle tue visioni di
quando eri giovane ci possono abitare animali che da-
vanti a una cabina telefonica chiedono A cosa serve?
(Avrei come obbiettivo di scoprirlo, tra un po’...)

i facevano delle grullate di genio niente male, negli
anni Settanta, come dicevo, parlottando del Beau-
bourg di Renzo Piano, la scorsa settimana: appro-
fittavano, mi ha spiegato il Geometra, del fatto che
il ’68 era passato lasciandosi dietro un po’ di porte
aperte. Un anno prima dell’inaugurazione del Centre Pompidou,
per esempio, due trentenni americani – uno con l’aura da primo
della classe e l’altro con una faccia che sembrava una caricatura


  • buttarono fuori una cosa che si intitolava Einstein on the Beach.
    Non il primo della classe, l’altro, si chiamava Philip Glass, e lo
    scorso martedì ha compiuto 80 anni: giù il cappello. L’Archivo
    festeggia: ci sarebbero tante cose da sfilare via dagli scaffali, e ri-
    girarsi tra le mani, ma mi concentro su una, quella lì.


E


instein on the Beach, in teoria, era un’Opera. O almeno,
questa era l’idea del primo della classe, Bob Wilson, che
l’aveva concepita. Naturalmente la parentela con Madama
Butterfly o La Traviata era una sottile linea rossa che vedeva solo
lui. Ma è importante registrare che su questo lui non aveva dubbi:
voleva arrivare a metterla in scena al Me-
tropolitan, e ci riuscì. Gli serviva ovvia-
mente un musicista, e scelse Philip Glass:
conoscendo la musica che quell’uomo fa-
ceva, era una scelta priva di qualsiasi sen-
so. Funzionò a meraviglia.
La musica che quell’uomo faceva era
una musica classica inaspettata e scon-
certante: era come un bambino geniale
che si fosse infilato di nascosto nel gara-
ge del padre e si fosse messo a giocare.
Infilava le dita nel grasso lubrificante, trafficava col trapano, sa-
liva in macchina e faceva finta di guidare, ma coi piedi. Il senso
di marachella e di piacere fisico era evidente. Io, ai tempi, non
avevo neanche vent’anni (ho contato tre volte, questa volta non
posso sbagliare): capivo poco, ma capivo abbastanza per sape-
re che quell’uomo stava dicendo una cosa che adoravo: l’intel-
ligenza non sarebbe morta per autosoffocamento: avrebbe inve-
ce cucinato piatti che ci sarebbe piaciuto mangiare. Bastava ave-
re quella strafottenza, quel coraggio, quella libertà e un talento
micidiale.
Va detto che in molti pensavano semplicemente fosse un ridico-
lo fast food della musica.
E in fondo, non fosse stato americano, lo avrebbero fatto a pezzi.
Ma se quegli arpeggetti li fai a New York...
Insomma, alla fine è finita in gloria.

E


instein on the Beach non aveva neanche una trama. Più che
altro galleggiava senza meta sul lago di un pensiero, il se-
guente: adorabile quello scienziato che suona il violino, fa
le linguacce, non si pettina mai e ci insegna la leggerezza, molto
adorabile, ma com’è allora che dal suo sapere è venuta fuori la
bomba atomica? Bum. Niente di particolarmente so-
fisticato, come si vede, uno di quei pensieri che ti
vengono in treno. I due, però, avevano del genio,
e misero su una cosa in 4 atti, 9 scene e 5 pic-
coli snodi (Knee Plays, li chiamarono, perché
curvavano la linea dello spettacolo, come gi-
nocchia, knees).

S


Lo stesso Glass
non sentì mai l’opera
tutta di fila

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