Anatoli Podoksik – Pablo Picasso 1881-1973. Ediz. illustrata

(Bozica Vekic) #1

c’è fine né unità né essere umano quale misura di tutte le cose; esiste
solo il cosmo, solo l’infinito frammentarsi dei volumi nello spazio
infinito!».[120]
Vediamo qui, ancora una volta, un elemento tipico di tutti i critici
russi di Picasso: una notevole prontezza nel definire l’essenza creativa
più profonda dell’opera del pittore per mezzo di analogie letterarie.
Allevati nel seno di una grande tradizione letteraria, essi stessi scrittori,
avevano come riferimento i protagonisti della “tragedia umana” di
Dostoevskij (Bulgakov, Pertsov, Tugendhold) o la grottesca visione
gogoliana del volto diabolico del mondo (Pertsov). Così interpretato e
descritto, Picasso esce dai loro articoli come una sorta di super-pittore:
per Chulkov, era un genio che esprimeva un pessimismo demoniaco;
per Berdiaev, un genio che esprimeva la decadenza, la corruzione,
l’atomizzazione del mondo fisico, corporeo, reale; per Tugendhold, un
impavido Don Chisciotte, cavaliere dell’assoluto, adepto della
matematica, condannato all’eterna vanità della sua ricerca e, al
contempo, punta di diamante del decadentismo contemporaneo.
Tutte queste definizioni (e se ne potrebbero aggiungere molte altre),
indipendentemente dalle loro differenze, sono sfaccettature di una
immagine mentale comune disegnata in base a un modello occulto che
serviva a produrre interpretazioni di Picasso analoghe. Oserei
affermare, anzi, che questo modello occulto altro non era chi il
“demone nietzscheano” di Vrubel, nato in origine dalla tradizione
romantica russa e rivitalizzato alle soglie del XX secolo dalla
consapevolezza simbolista.
È un’ipostasi tipicamente russa dell’artiste maudit, intimamente
estraneo a qualsiasi paradiso decorativo, artista-emarginato solitario,
destinato a morire nell’inferno della sua arte. E così Pëtr Pertsov scrive
del possibile fine di Picasso ispirandosi all’archetipo gogoliano del
Ritratto. Georgy Chulkov terminò il suo saggio con le seguenti parole:
«La morte di Picasso è tragica. Eppure, quanto sono ciechi e ingenui
coloro che credono di poter imitare Picasso e imparare da lui! Imparare
che cosa? Queste forme non hanno emozioni corrispondenti se non
all’inferno. Stare all’inferno, però, significa anticipare la morte. E i
cubisti non sono certo in possesso di questa illimitata conoscenza».
[121]
Non poteva essere che la morte di Picasso, benché simbolica, a
coronare questa immagine creata dai primi critici russi di un grande

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