ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO
di Michele Serra
F
orse ora la si smetterà davvero, e una volta per tutte,
di parlare di “tempesta emotiva” o “raptus di follia”
o “amore malato” riferendosi a un femminicidio.
Forse la si smetterà anche di credere che la gelosia non la
si possa controllare, o che la violenza possa talvolta
essere la conseguenza inevitabile della frustrazione o
della rabbia.
Dicendo no allo sconto di pena accordato dalla Corte
d’Appello di Bologna a Michele Castaldo, l’assassino di
Olga Matei, la Corte di Cassazione ha infatti deciso che la
“soverchiante tempesta emotiva e passionale” che
avrebbe travolto Castaldo non rappresentava
un’attenuante generica.
Perché si sarebbe d’altronde trattato di un’attenuante?
E per chi? Certo non per Olga, brutalmente strangolata
a mani nude dal proprio assassino. Senza alcuna
compassione. Senza nemmeno quel minimo rispetto che
è dovuto a ogni persona, quel rispetto che dovrebbe
obbligare chiunque a fermarsi, a non distruggere l’essere
umano che ci è di fronte, anche quando si è travolti
dall’ira, dalla gelosia, dall’ansia o dal dolore.
Ogniqualvolta, riferendosi a un femminicidio, si parla di
“tempesta emotiva” o “raptus” o “follia momentanea”
non solo si banalizza la gravità del gesto di fronte al
quale ci si trova, ma si diventa in un certo senso complici
dei colpevoli.
Si cercano delle scuse. Si invocano delle ragioni.
Si immagina di rendere giustizia prendendo in
considerazione la personalità o la storia di un colpevole
— cosa che può e deve fare uno psichiatra o uno
psicoterapeuta quando un uomo violento, rendendosi
conto della propria incapacità a controllare la collera o
la gelosia, cerca di essere aiutato per evitare di
commettere l’irreparabile — ma la giustizia, in questo
modo, non la si rende affatto, anzi, si approfondisce
ancora di più la sofferenza delle persone care, che non
solo hanno perso una figlia o una madre o una sorella o
un’amica, ma che sono anche costrette a sentirsi dire: è
un omicidio, sì, ma l’assassino va capito, era fragile, era
depresso, era geloso, aveva paura. Evocare un raptus o
una qualsivoglia tempesta emotiva è solo un modo di
riesumare l’antico “delitto d’onore” del Codice Rocco,
definitivamente abrogato nel 1981, ma ancora fin troppo
presente sia nella mentalità popolare sia nella cultura
giuridica (e talvolta giornalistica) del nostro Paese.
C’è dietro l’idea secondo cui le passioni non si
potrebbero controllare, la gelosia sarebbe una prova
d’amore, e la violenza la conseguenza di un disonore,
oppure di un abbandono, oppure di un’infanzia difficile.
Mentre dietro i femminicidi c’è quasi sempre
l’atteggiamento freddo e manipolatore di un perverso
narcisista che, incapace di fare i conti con le proprie
fratture — cosa dolorosa e difficile per tutti, sempre, ma
non per questo motivo per scaricare la propria rabbia o
le proprie frustrazioni su un’altra persona —
disumanizza la donna che gli è accanto ancora prima di
massacrarla. Come spiegare altrimenti la furia omicida?
Quelle mani che serrano finché la persona smette di
respirare. Quegli attimi lunghi di agonia durante i quali
dentro non si muove nulla di umano — nessuna
compassione, nessuna emozione, nessuna pietà — e, in
preda a una rabbia fredda, si va fino in fondo.
Un oggetto al limite sì, lo si può rovinare e distruggere
quando è nostro: nonostante la perdita del valore
economico, da un punto di vista
morale non si è commesso alcun
crimine. Ma una persona, come
spiega bene Kant, ha sempre e solo
una dignità, e quindi un valore
intrinseco. La dignità è sacra.
E nessuno ha il diritto di invocare
difficoltà o sofferenze o passioni o
umori per giustificare, o anche solo
spiegare, la propria o l’altrui
violenza.
L’amaca
Come una
vecchia felpa
Q
uanto in Germania il dibattito sull’eredità di Mario
Draghi abbia preso una piega orribile lo dimostra un
convegno dei giorni scorsi a Francoforte, durante il quale il
fuoco di fila contro le scelte dell’ex presidente della Bce è
del tutto degenerato. Markus Gerber, un giurista
dell’università di Berlino, ha addirittura accusato la Bce di
“megalomania” e di avere coltivato per se stessa un’idea di
sovranità che somiglierebbe a quella formulata dal famoso
giurista conservatore Carl Schmitt per Adolf Hitler.
Secondo Kerber, che non ha mancato di chiamarlo con
sprezzo signor Draghi, in italiano, l’ex governatore della
Banca d’Italia avrebbe totalmente deragliato rispetto al
mandato della Bce. Ma il convegno di Francoforte è solo la
punta dell’iceberg di un sentimento estremamente diffuso,
in Germania. Un sentimento che ha scarso fondamento
teorico e tradisce punte di xenofobia.
Il punto non è solo lo strisciante razzismo insito nelle
frequenti accuse a Draghi di aver fatto soprattutto gli
interessi dell’Italia, depredando i “poveri” risparmiatori
tedeschi attraverso i tassi azzerati. Sorvolando sul fatto che
nei principali Paesi industrializzati, Stati Uniti, Regno Unito
o Giappone, è avvenuto lo stesso, cioè i tassi di interesse
sono precipitati dal 2008 rapidamente a zero per consentire
alle economie devastate dalla Grande crisi di riprendersi, è
stato l’economista keynesiano Peter Bofinger a ricordare,
inascoltato, ai tedeschi che ai tempi del marco la
Bundesbank azzerò per decenni i guadagni dei
risparmiatori, mantenendo i tassi alti per frenare
l’inflazione.
Un argomento che si potrebbe usare per far riflettere sui
pregi delle mosse dei Draghi del costo del denaro quasi
nullo, è che chi ha comprato casa dieci anni fa in Germania,
ha spesso visto aumentarne vertiginosamente, persino
raddoppiarne il valore, grazie ai prezzi al galoppo che si
registrano soprattutto nelle grandi città. E pazienza se i
tedeschi sono un popolo di risparmiatori e preferiscono gli
affitti: far riflettere sulle opportunità delle politiche
monetarie è anche compito dei giornali e dei politici. Invece
nessuno ne parla mai. E si preferisce gridare alla “invasione
della liquidità” o disegnare, come ha di recente fatto la Bild,
Draghi come se fosse Dracula. Un’altra celebre copertina di
un quotidiano ritrasse l’italiano mentre si fumava un sigaro
di banconote arrotolate.
Al di là dell’insopportabile paternalismo con cui, sempre la
Bild, gli mise in testa l’elmetto prussiano nel tentativo di
“germanizzarlo”, è chiaro che se si fossero accontentati i
desiderata dei tedeschi, l’euro sarebbe andato a gambe
all’aria. Un aumento dei tassi di interesse e la fine del QE,
(l’acquisto dei titoli di Stato che ha calmato lo spread), che è
stata l’ossessiva richiesta di metà dei commentatori
tedeschi a Draghi, avrebbe devastato l’economia e spaccato
in due l’euro.
L’inflazione non è mai stata così bassa, in Germania,
neanche ai tempi d’oro del marco. Questo è già un dettaglio
non indifferente che Jean-Claude Trichet ricordò ai
tedeschi nella sua ultima conferenza stampa da presidente
della Bce, otto anni fa. Anche questo è un argomento che il
Paese scottato dall’iperinflazione stenta a ricordare ai suoi
cittadini. Così come sono sempre rarissimi i politici e gli
analisti che ricordano quanto la Germania approfitti del
fatto che l’euro sia una valuta troppo debole rispetto alla
potenza da prima economia europea — proprio perché è una
moneta “diluita” in un contesto di Paesi meno forti. Ma
ormai per i tedeschi sembra difficile emendare dal generale
riflesso di attribuire all’italiano tutte le colpe del mondo.
eglio (un po’ meglio) Meloni di
Salvini, nei commenti sul caso
Segre. Meno grossolana, più
attenta nei giudizi. Se ne
deduce che il capo del partito
che discende da Msi e Alleanza
Nazionale, sulla carta il più a
destra, almeno sa di che cosa si sta parlando:
della Shoah e dell’antisemitismo. Mentre
l’altro, il capo della Lega, parla d’altro e
blatera delle minacce a proprio carico, ovvero
della presente rissa politica della quale, tra
l’altro, egli è artefice di primo piano. E osa
metterla sulla stessa bilancia delle minacce a
una reduce di Auschwitz. Lui che è reduce al
massimo del Papeete.
Il problema è davvero grosso se è il partito di
maggioranza relativa (la Lega), quello
apparentemente meno coinvolto nella
dialettica fascismo/democrazia, a portare il
carico più greve di indifferenza e di cinismo.
Come dimostrano quasi ogni giorno molti
sindaci e amministratori leghisti in prima
linea nella demolizione del senso comune
repubblicano.
Certo contano le pesanti e annose
infiltrazioni neonaziste nel Carroccio,
ampiamente agli atti. Ma conta anche di più
la presunzione di incarnare un’energia
“barbarica”, post-culturale, da curva di stadio
più che da emiciclo parlamentare, che se ne
frega dell’antifascismo non solo e non tanto
perché preferisce il fascismo (e lo preferisce),
ma perché se ne frega della storia e di tutte le
inutili panzane che si trascina dietro. Conta
solo il qui e ora, il potere da raggiungere tra
due ali di popolo osannante. Fascismo e
antifascismo sono, per Meloni, uno scontro
politico coinvolgente, per Salvini solo un
impiccio da levarsi di dosso come una vecchia
felpa.
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A pagina 16
il servizio sul no
della Cassazione
allo sconto di
pena per
“tempesta
emotiva”
g
La vignetta di Biani
M
di Michela Marzano
Non giustificare la violenza
Il lessico contro le donne
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di Tonia Mastrobuoni
Il caso
Draghi, altro che Dracula
f
Anche dopo l’addio alla Bce,
l’ex presidente resta un bersaglio
di esperti e giornali tedeschi
Ecco perché servirebbe un grazie
©RIPRODUZIONE RISERVATA
pagina. (^34) Commenti Sabato,9 novembre 2019