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tutto privato. Io sono convinto che
dobbiamo fare le cose che altri Paesi
fanno senza problemi o quasi.
Dobbiamo avere un’imposta
patrimoniale, dobbiamo limitare
enormemente la quantità di
ricchezza che si può ricevere in
eredità».
Ma chi dovrebbe farlo?
«Beh, abbiamo una situazione
abbastanza particolare con il Partito
laburista, se riescono a salire al
potere e a liberarsi di Corbyn (penso
che a Corbyn in realtà non
dispiacerebbe andarsene), ma hanno
questo elemento leninista, questa
smania di livellare la società. Ho
sempre pensato (anche se,
paradossalmente, non è così che ho
sempre votato) che alla fin fine è un
conservatorismo compassionevole
quello che potrebbe riuscire, per
esempio, a integrare il sistema
scolastico privato. Se lo fai da sinistra,
tutti penseranno che lo fai per
risentimento; se lo fai da destra,
sembrerà un modo intelligente di
organizzare la società».
Arrivati a questo punto rischiamo
di avere l’aria di due vecchi barbogi
scontrosi che rievocano con
nostalgia un’età dell’oro
immaginaria.
«Si potrebbe dire che con la
scomparsa della classe operaia
abbiamo assistito anche alla
scomparsa di un ordine sociale
consolidato, fondato sulla stabilità
delle vecchie strutture di classe. E poi
la classe operaia aveva l’esperienza
della guerra, ma le persone con
esperienza della guerra, una ad una,
sono sparite dalle politica».
L’atteggiamento verso la Brexit è
espresso in modo pungente nel
nuovo romanzo. Sicuramente
qualcosa di più, e per fortuna di
meno, di un’invettiva politica.
«Non volevo che fosse un romanzo
sulla Brexit. Volevo che fosse
leggibile e comico. Ma se si vuole
avere l’impertinenza di proporre un
messaggio, allora il messaggio del
libro è che ormai nessuno sa quale sia
il nostro concetto di patriottismo e
nazionalismo, a chi debba andare la
nostra lealtà, collettivamente e
individualmente. Io penso che la
Brexit sia totalmente irrazionale, che
sia la dimostrazione di una scena
politica britannica sconcertante e di
una notevole incapacità diplomatica:
le cose che non andavano bene
dell’Europa potevano essere
cambiate dall’interno dell’Europa.
Credo che i miei legami con
l’Inghilterra si siano enormemente
allentati negli ultimi anni. E in un
certo senso è una liberazione, anche
se una liberazione triste».
Essere una spia ti ha dato un
senso di appartenenza?
«Cercare concretamente — in senso
faustiano, Dio mi aiuti — quello che il
mondo nasconde nel suo punto più
recondito, è stato un modo per
chiedermi: che cosa siamo? Chi
eravamo? Che probabilmente è
un’estensione della domanda: chi
diavolo sono io? Dove si trova la
virtù? Dov’è l’altare dell’inglesità? E
penso che sia stato un viaggio
interiore davvero duro, e molto
interessante guardandolo con il
senno di poi: un ragazzo perduto in
cerca di qualcosa».
Ma quando eri un membro dei
servizi segreti sentivi di essere in
contatto con il mondo reale,
distinto dal mondo di fantasia in cui
la maggior parte di noi vive
spensieratamente?
«Ero una figura di livello molto basso,
sia nell’Mi5 che nell’Mi6. Quindi gran
parte di quello che la gente pensa sia
frutto di esperienza diretta, nei miei
romanzi, in realtà è immaginato. Ma
quando mi consentivano di
partecipare alle riunioni operative
sentivo quello che stavano tramando
gli animali più grandi, così quando
sono uscito da quel mondo — con
grande sollievo — avevo un
ricchissimo tesoro di operazioni
immaginate, basate su sprazzi di
realtà. Ma non ho mai fatto nulla di
qualche rilevanza in quel mondo».
Evgenij Primakov — ex capo del
Kgb — venne in Gran Bretagna per
una visita ufficiale, al termine della
quale la sua unica richiesta fu di
incontrare le Carré.
«Così io e Jane (sua moglie, ndt) c i
siamo ritrovati nell’ambasciata russa
circondati da russi, con Primakov
davanti a me. Era un uomo
estremamente intelligente, dalla
grande cultura umanistica, anche se
all’età di 18 anni lavorava già con
l’Nkvd, che poi sarebbe diventato il
Kgb. Era affascinante e siamo stati
benissimo con lui, ma io ero
terribilmente fuori posto, in realtà.
Lui si immaginava, non so perché,
che l’autore della Spia che venne dal
freddo fosse sofisticato quanto lui. E
questo a volte mi succede ancora: la
gente è convinta che io conosca cose
di cui non so assolutamente nulla ».
Parliamo degli ultimi libri,
ambientati fra i super-ricchi, a base
di brutte guerre in Paesi stranieri, di
battaglie contro Big Pharma. È
evidente che sei orgoglioso di
queste opere, e del suo supporto
alle forze del bene, per quel che
valgono. Il che ci riporta,
inevitabilmente, all’enigma di tuo
padre.
«Non faccio che scervellarmi per
capire quali fossero le sue
motivazioni. Mi chiedi che cos’è che
lo divertiva. Credo che quello che lo
divertiva fossero le grandi truffe che
riusciva a mettere a segno».
Questo non faceva di Ronnie un
artista, a modo suo?
«È questa la cosa che mi affascina,
ovviamente: io sono semplicemente
la versione fortunata di mio padre?».
Se è così, siamo noi, i lettori di John le
Carré, quelli fortunati.
— © John Banville/Guardian
News & Media
(Traduzione di Fabio Galimberti)
di John Banville
f
il libro
La spia corre
sul campo
di John
le Carré
(Mondadori,
trad. di Elena
Cappellini,
pagg. 264,
euro 20)
il personaggio
John le Carré
Credetemi
ero una spia
di serie B
Lo scrittore John Banville intervista il maestro della spy story
Che demolisce il proprio mito: “Ero un agente di basso rango,
mai fatto nulla di rilevante. Per questo nei libri invento tutto”
LA PRESSE
g
Mio padre era
un genio della truffa,
mi ha fornito tanto
materiale narrativo
Allora la domanda
è: io sono solo la sua
versione fortunata?
Primakov, ex potente
capo del Kgb, volle
incontrarmi: pensava
che l’autore
della Spia che venne
dal freddo fosse
sofisticato quanto lui
. Martedì,^22 ottobre^2019 Cultura pagina^33