Abby Wambach non sapeva che cosa dire alle laureande
del Barnard College di New York. Non aveva mai scritto un
discorso, e non era né Barack Obama né Meryl Streep, in-
vitati a fare lo stesso, anni prima di lei. Poi si era ricordata
che le cose che l’avevano portata al successo – due medaglie
olimpiche e un Mondiale nel 2015 con la Nazionale ameri-
cana – erano capitate quando era uscita fuori dal sentiero.
Non era Cappuccetto Rosso, ma una lupa. Con un suo bran-
co, le compagne di squadra, pronto a lottare con lei. «Dentro
ogni donna esiste una lupa, ovvero la persona che
è stata prima che il mondo le dicesse cosa doveva
fare», disse alle ragazze. «Questa lupa corrisponde al talento,
al potere, ai sogni, alla voce, alla curiosità, al coraggio, alla
dignità e alle scelte di ogni donna: è la sua identità più auten-
tica». Wambach aveva quindi raccontato la sua favola: una
delle calciatrici più forti di sempre diventata un’attivista per i
diritti delle donne. E lo aveva poi scritto in Un branco di lupe
(Mondadori), centonove pagine che partono da lei e puntano
il dito sul divario salariale tra maschi e femmine nello sport.
«E ovunque. Una battaglia che condivido», dice Laura
Giuliani quando la incontro, mentre sfoglia il libro. «Anche
se ci sono Nazionali messe molto peggio delle americane...».
Riavvolgiamo il nastro: mentre all’ultimo Mondiale in
Francia il capitano della Nazionale americana Meghan
Rapinoe sollevava la coppa e riproponeva la battaglia per
il gender pay gap, consapevole che negli Stati Uniti il calcio
femminile genera profitti tripli rispetto a quello maschile, in
Italia il dibattito era agli inizi, su un tema più a monte: il rico-
noscimento come professioniste delle calciatrici. Nonostante
Italia-Olanda, l’ultima partita dei quarti, avesse incollato al
televisore mezza Italia (47% di share tra Rai e Sky) e ci sia
stato un boom di tesserate (+39,9%, dati Report Calcio Figc
2019), la situazione a oggi non è cambiata. C’è un disegno di
legge in discussione in Parlamento, ma non la certezza sui
tempi. Quindi, le calciatrici che il 29 agosto vedremo indos-
sare di nuovo la maglia azzurra per le qualificazioni a Euro
2021 non hanno ancora veri contratti di lavoro. Non
hanno la maternità, i contributi né la malattia.
Anche in Germania si fatica. La Giuliani, che a 19 anni,
dopo il liceo, senza parlare una parola di tedesco, si trasfe-
risce a Gütersloh («un posto nel nulla»), non riesce a man-
tenersi con l’ingaggio da calciatrice. Le serve un lavoro. «In
una fabbrica come addetta al controllo e impacchettamento
di dvd e PlayStation», scrive l’allenatrice della Nazionale Mi-
lena Bertoloni in Quelle che il calcio (Compagnia Editoriale
Aliberti). «Poi in un panificio dove la mattina si deve alzare
alle tre e lavorare fino a mezzogiorno, riposarsi appena, e poi,
di pomeriggio, andare agli allenamenti. Trova impiego anche
in un ristorante, facendo la cameriera. Quando è in forza al
Colonia, lavora anche al fanshop della società».
Che cosa ne pensa dei minori guadagni delle donne nel cal-
cio?
«L’uguaglianza è fondamentale tra maschi e femmine. È una
lotta che stiamo facendo da anni, speriamo di vincerla».
Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella,
quando ha ricevuto la Nazionale dopo i Mondiali, ha parla-
to di «speranza», dicendo: «L’avete ridata a un Paese che ha
perso la fiducia di veder riconosciuti i propri sforzi».
«La strada è quella giusta: quando diventeremo professioni-
ste non lo so, ma succederà, non si può cambiare da un giorno
all’altro. Dobbiamo sfruttare l’onda dell’entusiasmo creata
con il Mondiale, ma anche coltivare il nostro seguito, che c’è».
Abby Wambach racconta che la Fifa vent’anni fa non con-
sentiva alle femmine l’uso degli stadi dei maschi, perché non
vendevano abbastanza biglietti. Quindi le calciatrici ameri-
cane decisero di fare una specie di guerrilla marketing: an-
davano nelle scuole, arrivando ai campetti di allenamento
delle ragazze. Alla fine hanno creato il movimento sportivo
Mi sono rotta due
volte il naso, per
i calci in faccia.
Ma nessuno ha mai
cercato di farmi
smettere, anzi