CorrieredellaSeraDomenica1Settembre2019
CORRIEREDELLADOMENICA
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ILCOLLOQUIO
bile solo apparire, per essere.Per farlo sicerca
di sorprendere, spesso attivando sentimenti
nonvirtuosi delle persone. Come la paura e
l’odio. ImmaginiTogliatti, Nenni, Moro, La
Malfa che si dicono le parolacceintelevisione,
che fanno i divi? Non sono un nostalgico dei
tempi andati, il presente mi interessa, ma so-
no unconvinto assertore deivalorifondanti la
politica e la vita».
Tu hai girato poi uno dei film che hanno ac-
compagnato laformazione dellacoscienza ci-
vile di una generazione: «Sacco e Vanzetti».
«Se ne sapeva poco, prima. Inrealtà anche
ioconoscevo questi due nomicome quelli di
due emigranti, che erano finiti male. Inrealtà
nel Massachusetts, dovearrivarono da mi-
granti italiani, l’unicaforma organizzata di di-
fesa dei lavoratori che incontrarono fu l’anar-
chia. E loro aderironocon grande vigore, so-
prattuttoVanzetti.Unavolta andaiatrovare
mia mamma a Genova, vidi chec’era una pièce
teatrale su Saccoe Va nzetti, ma non sapevo be-
necosafosse la loro storia. Andai in unteatro
di operai a Sampierdarena e vidi la loro avven-
tura, naturalmente raccontata dal punto di vi-
sta dei familiari. Comunque mi avevacolpito.
Appena arrivato aRoma hocercatotra libri e
documenti qualcosa che mi aiutasse. Ho chia-
matoFabrizio Onofri, che era stato sceneggia-
toreanche deIltiroalpiccione, che invece sa-
peva molto, aveva anche dei documenti. Così
ho, abbiamo,cominciato».
Fufacile, in quegli anni, produrreunfilm
su due anarchici uccisi dalloStatoamerica-
no?
«Eroreducedadue successicommerciali:
Gliintoccabili, il primo film che rappresenta-
vala mafia in smoking, eAdognicosto.Aveva-
no fatto soldi al botteghino e pensavo chefos-
se facile girareSaccoeVanzetti. No, i produt-
tori mi trattavano male,respingevano il pro-
getto. Dopo quasi due anni di ricerca,andai
dai Colombo, che erano buoni produttori.
Quando Arrigo Colombo sentì il nome diVa n-
zetti, sobbalzò.Poi scoprii che lui, ebreo fug-
gito dall’Italia nel ‘38, era andato in America e
aveva imparato l’italiano proprio dalle lettere
cheVanzetti mandavaalcomitatodifesa.
Quindi accettò.Poiperòavevapaura perché
fare un film ambientato in Massachusetts ne-
gli anniVe nti era difficile: nonc’era neanche
più un mattone dell’America di quel periodo.
Cominciammouna ricercadisperata di posti
utili ma poi scoprimmo che la fabbrica, ilcal-
zaturificio dovelavorava Sacco, era ancora in
piedi. Abbandonato datempo, era ancora lì».
Come arrivasti aJoan Baez che scrisse per il
film «Here’sto you»?
«Ci ho messo tre anni per farlo. Ero andato
in America pervedere il materiale direperto-
rio delle famose manifestazioni di solidarietà.
Peròprima il mio produttore mi aveva detto di
fermarmi a NewYork per incontrare un pro-
babile, poi assolutamenteimprobabile,co-
produttore. Ero in albergo, scendo e incontro
Furio Colombo. Era in America in quel perio-
do a lavorare e mi dice: “Cosa fai qua?”. “Sono
venutoacercaredi metter su un film che si
chiamaSaccoeVanzettie poi spero di trovare
l’agente, o di incontrareJoan Baez”. “Chi vuoi
incontrare?”. “Joan Baez”. “Viene stasera a
mangiare acasa mia”. Sonocorso incamera in
albergo, ho preso ilcopione in inglese, sono
sceso giù e gli ho detto di darglielo. L’indoma-
ni mattina mi arriva una chiamata dalla signo-
ra Baez. Furio le avevaraccontatodime, lei
avevalettolasceneggiatura... Insomma mi
disse solo: “Mi piace, ci sto”».
Alcune sale furono bruciate per aver proiet-
tato il film.
«ARoma, sì lo so.Peròin giro per il mondo,
in moltecittà, facevano delle proiezioni al-
l’una di notte. Fu un successo incredibile».
Chi ti mancadipiù delle personeconle
quali hai lavorato?
«Carlo Lizzani, naturalmente.Epoi Ettore
Scola».
Com’era Scola?
«Ettore era un genio. Ed era un uomo diver-
tente. Si divertiva a farmi scherzi. Ettore, una
settimana prima di andare nelregno dei cieli
dovec’è posto per iregisti, mi chiamò per dir-
mi solo: “Ma èveroche fai un filmcome atto-
re?”. “Sì me lo ha chiesto Giovanni Bruni”. “Di-
gli di lasciare perdere, sei uncagnacciocome
attore. Vuoirovinare anche questoregista, do-
po Lizzani?”. Si divertivacome un pazzoa
rompermi. Allora gli dissi “Va bene, poivedia-
mo”. Quando mi hanno dato il Davidcome at-
toresai chevolevo ricordarlo? Ma pensai no,
troppo stupido.Poiperòalzai gli occhiegli
dissi, dentrodime, “Allora hai vistoEttore?
Haicambiato idea, almeno questavolta?”».
Mi racconti il clima di quegli anni travoi?
Perché voi eravate uniti econcorrenti, amici e
rivali.Una cosa che si è persa...
«Sono statoalle riunioni di sceneggiatura
quando lavoravoaifilm di Scola, Scarpelli,
Benvenutietanti maestri.Edevodireche
spesso litigavano e arrivavano quasi alle mani.
Livedevo lavorare e la sceneggiatura alla fine
era perfetta. La creatività infatti nascecon il
dialogo, vienecon il parlarsi,con il misurarsi.
Non basta scambiarsiitesti alcomputer. Io
erosconvoltodalla lorobravura.Avendoco-
nosciuto loro, Monicelli, Leone, hocapito che
non sarei mai statocapace di fare dei film al-
l’altezza di quei signori che avevano un talento
nel sangue, parlavano di politica facendo film
popolari,commedieowestern.Ecivoleva
non solo estro, ma anche questa solidarietà,
questa amicizia tra loro percombinare impre-
secosì belle. Io ho un’idea che non so se èrea-
lizzabile.Vo rrei fare ilfestival dei film martiri
di qualità. Quelli che hanno avutozerodi criti-
cae dieci di pubblico. Sono i film che hanno
permesso a tutti noi di proseguire e di far di-
ventareilcinema italiano ciò cheèstato. Se
nonc’erano loro, nonc’eravamo noi».
Qual è il film più importante della tua vita
come spettatore?
«Devotornare al neorealismo.Ladridibici-
clette. ERomacittàaperta».
L’attoreol’attricedicui hai più nostalgia
chi è?
«Ingrid Thulin. È stata una Agnese magnifi-
ca. Èvoluta stare gratuitamente, un mese pri-
ma dell’inizio delle riprese, dalle persone del-
la Romagna percercaredicapirne la cultura e
il linguaggio.Unfenomeno per serietà, impe-
gno, amiciziaedesiderio di raccontareuna
staffetta partigiana. La gente ci circondava di
affettoediospitalità. Mangiavamo sempre
conlepersone del luogo, pasti magnifici.
C’era quel paraculo di NinettoDavoli che,
quando il pulminocongli attori partigiani
passavanei paesini, dicevaalle persone “Si-
gno’ siamoipartigiani dell’Agnese, ha mica
qualcosa da mangiare?”. E le donne dall’uscio:
“Venite,venite nella miacasa”. E mangiava tut-
to. Però, per i partigiani dell’Agnese, si faceva
questo ed altro».
Come sei diventato tifoso del Genoa?
«Avevoottoanni quando mio zio, un tipo al-
l’anticacon un bastoncinocon latesta di avo-
rio, mi portòlaprimavolta allo stadio. Era
sempre elegantissimo, un genoano sfegatato.
Andammo a Marassi. Il Genoa perde e mio zio
comincia a litigare, se nevae mi dimentica al-
lo stadio. Allora nonc’erano itelefonini...Poi
eravamo dei soldatini, in queltempo, all’età di
ottoanni.Restai immobile lì. Erosmarritoe
mi stavocongelando. Si stavasvuotando lo
stadio, quando arrivarono due inservienti del-
la società econ la bandiera del Genoa mi pro-
tessero dal freddo.Avvolto in quel drapporos-
soblu sono sopravvissutoall’abbandono.Po-
trei tifare per altro?».
Come immagini il futuro?
«L’altrogiorno riflettevoche arrivatiano-
vanta anni, più o meno devi aspettarti di an-
dartene. Io ho pensatoche il mio dolorepiù
grande è di lasciare ai nostri nipoti e ai nostri
figli un mondo pieno di paure e di ingiustizie.
Purtroppo non ho più laforza di scendere in
piazza e poicon chi? Da solo?Perché il proble-
ma è: checosa fai? Siamo sempre più soli. È il
computer checomanda. Qua si sonotolti il di-
schettodella ragione dalcervelloelohanno
messo dentro alcomputer. Ecosì è finita. Do-
vrebberoincontrarsiesocializzaretra loroi
robot che avremo presto. Nelle piazze diremo
loro di urlare e lo faranno. Io non ci sarò più e
mi dispiace perchécomprerei cinquemilaro-
bot per mandarli a gridare viva i lavoratori e vi-
vala giustizia sociale e viva la pace. Ma,forse,
ho sbagliato epoca».
©RIPRODUZIONERISERVATA
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NellaResistenzaqualcosahofatto,avevo
solo15anni,manonpossodarmiarie...
Ancheperchéunavoltamiècadutauna
bombaamanoemisonoferitodasolo
Inazione
Giuliano
Montaldoin
unmomento
delleriprese
di«Tiroal
piccione»,
filmdel
1961dalui
direttoeche
segnòilsuo
debuttoalla
regia.Ilfilm
èstato
giratoa
Vercelli,sul
lago
Maggioree
sulle
montagne
dellazonadi
Balmuccia
SaccoeVanzetti
Unesame
dicoscienza
Dall’archivio
diIndroMontanelli
A
quanto pare, gli ame-
ricani hanno intenzio-
ne di rifare il processo a
Saccoe Va nzetti per riabi-
litarli. Così almeno si leg-
ge sui giornali, e speriamo
che siavero. Avremmo
preferito che a questarevi-
sione sifossero decisi un
po’ prima. Ma d’altra parte
comprendiamo quanto
debbacostare all’orgoglio
di un popolo, che tiene la
Giustizia incosì altocon-
cetto, il dover riconoscere
che quellavolta essa fu
servita molto male dai
suoi tribunali, e per ragio-
ni cheforse non hanno
nemmeno la attenuante
dell’errore giudiziario.Per
cui, malgrado il ritardo,
troviamo ugualmente am-
mirevole e degno di enco-
mio il fatto che l’opinione
pubblica abbia avuto il
sopravvento sulle riluttan-
zedella Magistratura e
della bigotteria nazionale
che, ne siamo sicuri, an-
che in America esiste (...)
Oracostoro, quasi 40 anni
dopo l’ingiustacondanna,
stanno per essere riabilita-
ti dagli americani. Questa
revisione obbliga i magi-
strati a una ricercadire-
sponsabilità, che fatal-
menteverranno addossate
a certi criteri della loro
Giustizia e implicheranno
quindi una autocritica
piuttosto dolorosa.Perché
non dovremmo farne una
anche noi, alla ricercadei
motivi che danno origine
a queste prevenzioni nei
nostri riguardi? Ci sono
molte leggende sulla
malavita che abbiamo
importato in America.
Ma ci sono anche alcune
sostanzialiverità, di cui
certo nonverremo acapo
fingendo d’ignorarle, o
negandolecol retorico
sdegno del patriottismo
offeso. Saccoe Va nzetti
sono già stati moralmente
assolti da chiunque abbia
un briciolo di moralità e di
buon senso. Ora si tratta di
fare in modo che il loro
sacrificio sia servito a
qualcosa, cioè d’impedire
che altri innocenti
seguano la loro sorte. Gli
americani facciano il loro
giuoco riconoscendo le
disfunzioni cuivasoggetta
la loro giustizia. Noi
facciamo il nostro
addossandoci le
responsabilità che ci
competono nell’alone di
sospetto da cui siamo
dovunque aureolati. È
soltantocon questi gesti
dicoraggio, di onestà e di
sincerità che riusciremo a
disperderlo, o per lo meno
a attenuarlo; noncerto
continuando a mentire
agli altri e a noi stessi, cioè
fornendo un’ulteriore
prova che siamo proprio
quello che dicono.
(dal«Corriere»
del3giugno1959)
©RIPRODUZIONERISERVATA