la Repubblica - 20.08.2019

(nextflipdebug5) #1

I


l presidente del Consiglio Conte ha
oggi l’occasione di concludere la sua
avventura a Palazzo Chigi meglio di come
l’aveva cominciata poco più di un anno fa.
Allora era “l’avvocato del popolo”,
definizione un po’ stucchevole che
mascherava la realtà meno suggestiva di
un tecnico, un buon professionista del
diritto indicato dai Cinquestelle per
governare tenendosi in equilibrio sulle
spalle dei suoi due vice, Di Maio e Salvini.
Oggi la situazione è capovolta, con buona
pace di coloro che fantasticavano di un
esecutivo gialloverde di legislatura.
Si suppone che Conte dirà cose sgradevoli
sul capo della Lega, già da lui bersagliato
nei giorni scorsi. S’intende che non è stato
il premier a provocare il cortocircuito in
cui si è scottato il ministro dell’Interno.
Tuttavia è lui ad averne ricavato il
maggior vantaggio, persino più di Renzi e
Prodi tornati sulla scena. È Conte che oggi
può ratificare con il suo discorso, in
termini istituzionali, la fine del
tumultuoso sodalizio Lega-5S; e sarà
sempre lui, modulando la forma e la
tempistica delle dimissioni, a offrire a
Mattarella il filo intorno a cui provare a
costruire una nuova maggioranza, prima
di arrendersi alla fine della legislatura.
Molti hanno notato che il presidente del
Consiglio si è modellato con una certa
astuzia l’immagine dell’anti-Salvini e che
questo potrebbe portarlo lontano, fino a
impersonare se stesso in una nuova serie
intitolata “governo Conte-bis”. Può darsi
che sia così, ma in definitiva il destino
dell’avvocato del popolo oggi interessa
poco. È più utile cercare di intravedere il
futuro a breve di una crisi confusa, la cui
soluzione è tutt’altro che già scritta. Si è
persino detto, a proposito di stranezze,
che potremmo addirittura vedere Salvini
andare a Canossa e celare le sue
ambizioni frustrate dietro un rimpasto,
magari drammatizzato attraverso una
crisi-lampo. Tutto è possibile, benché
inverosimile, in questo bizzarro agosto in
cui i codici della politica sembrano saltati
uno dopo l’altro. Ma al momento
sappiamo solo che le carte non saranno
sul tavolo fin quando il presidente della
Repubblica non avrà dato le prime
indicazioni.
Il dilemma è sempre lo stesso. Riguarda i
tempi, gli schieramenti e i contenuti. Se
prevale la necessità di fare in fretta, così
da non procrastinare troppo le eventuali
elezioni, difficilmente avremo un governo
in grado di sanare le infinite
contraddizioni che scandiscono il
rapporto conflittuale tra Pd e 5S: le stesse
che fino a una settimana fa hanno avuto in
Renzi il più autorevole sostenitore. Se
l’accento si sposta sulle “larghe intese” in
chiave europeista, come indicato da
Prodi, la matassa s’ingarbuglia perché
occorre dare un senso alla presenza
intorno al tavolo del partito
berlusconiano, espressione del Ppe,
accanto ai “grillini” neo-convertiti e
alquanto inaffidabili. Di sicuro, più si
allarga la trattativa più si appannano i
programmi. Salvo che non si voglia
ammettere che il nuovo governo —
battezzato “istituzionale” o di legislatura
o come si preferisce — ha solo tre obiettivi:
eliminare dalla scena politica la destra
radicale e nazionalista di Salvini,
rassicurando i nostri partner tedeschi e
francesi; predisporre una nuova legge
elettorale, ancorata al taglio dei
parlamentari, che renda problematica la
rivincita elettorale della Lega, quando
sarà il momento; e infine gettare le basi
per eleggere il prossimo presidente della
Repubblica, nel ‘22, nel perimetro tra
centrosinistra e centrodestra moderato.
Presto, grazie a Mattarella, il quadro sarà
più chiaro.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Tito Boeri

©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Stefano Folli

Il punto


Tre obiettivi


dietro le quinte


Bucchi


La crisi e l’economia


La tagliola dell’Iva


S


ia che si vada subito a nuove elezioni, sia che ci sia un
governo di garanzia che ci porti al voto in primavera,
oppure che si arrivi alla formazione di un nuovo governo
destinato, almeno sulla carta, a durare l’intera legislatura,
arriveremo del tutto impreparati a una sessione di bilancio
particolarmente impegnativa. Abbiamo temporaneamente
scongiurato una procedura comunitaria per violazione delle
regole sul debito impegnandoci a miglioramenti strutturali dei
nostri conti pubblici nel 2020. Tutte le forze politiche
sostengono di non volere aumentare l’Iva come previsto dai
documenti presentati a Bruxelles dal governo Conte, ma senza
quell’aumento siamo destinati a sforare e non di poco la soglia
del 3% di disavanzo. A quel punto la procedura di infrazione
sarebbe inevitabile e, con questa, si avvierebbe una spirale di
aumenti degli interessi sul debito pubblico e disavanzi
crescenti che potrebbe, volenti o nolenti, portarci fuori
dall’Euro, in un contesto internazionale pieno di insidie (dalla
Brexit senza un accordo, alle guerre commerciali fra Cina e
Stati Uniti, al rallentamento dell’economia tedesca).
Ci sono paesi che hanno affrontato senza troppi traumi lunghi
periodi di instabilità politica. Pensiamo al Belgio rimasto senza
governo per 589 giorni tra il 2010 e il 2011 eppur in grado di
registrare una performance economica migliore di Francia,
Germania e Regno Unito in quel periodo. Oppure alla Spagna
cresciuta di oltre il 3% abbattendo la disoccupazione nei 10
mesi senza governo del 2016. Ma né Belgio né Spagna correvano
il rischio di uscire dalla moneta unica. Se vogliamo sperare di
ripetere la loro esperienza dobbiamo dimostrare sul campo che
siamo in grado di tenere sotto controllo i conti pubblici, con o
senza un governo nel pieno delle sue funzioni. Servirà a evitare
di continuare a pagare quella tassa sul populismo, che ci ha
condannato a pagare interessi sul nostro debito pubblico 4
volte più alti che in Spagna o Portogallo. Servirà a non
scoraggiare investitori che potrebbero aiutarci a risolvere i
tanti fronti di crisi industriale aperti e a finanziare le startup in-
novative di cui abbiamo bisogno per ripartire.
La scelta più importante da fare nell’immediato riguarda
l’aumento dell’Iva. Vale 23 miliardi nel 2020. Un governo
credibile, che si impegni a forti risparmi su “quota 100”, ad
attuare controlli più stringenti sul Reddito di Cittadinanza e a
consolidare i risultati ottenuti con la fatturazione elettronica
nel recupero di gettito Iva, potrebbe probabilmente limitarsi a
reperire un punto di Pil per neutralizzare quella clausola
senza incorrere nelle procedure di infrazione. Ma anche un
punto di Pil è tanto per un governo dell’era populista, in cui
l’opinione pubblica è portata a pensare che i vincoli di
bilancio non esistano, che siano un’invenzione dei burocrati
di Bruxelles per limitare la nostra sovranità nazionale. Forse
più saggio, a questo punto, rassegnarsi a un aumento selettivo
dell’Iva, riducendo la gamma di beni e servizi soggetti all’ali-
quota del 4% guardando agli effetti distributivi di questa ope-
razione, e armonizzando le aliquote del 10 e del 22 per cento a
un livello intermedio, cosa che sarebbe anche di grande aiuto

nella riduzione dell’evasione fiscale.
La ragione per cui tutti i partiti sostengono di non volere au-
mentare l’Iva è che nessuno si vuole intestare un così visibile
aumento delle tasse. Ma l’impegno a non aumentare le tasse
non significa rinunciare a cambiare la composizione del prelie-
vo fiscale che in Italia grava troppo sul lavoro. Un aumento se-
lettivo e ben congegnato dell’Iva aprirebbe lo spazio per ridu-
zioni delle tasse sul lavoro con benefici importanti per la cresci-
ta del nostro Paese. Bene ricordarsi che proprio una riduzione
della pressione fiscale sul lavoro, abbinata a un aumento dell’I-
va è stata la chiave del ritorno alla crescita della Germania agli
inizi del nuovo millennio. Allora era la Germania il grande ma-
lato d’Europa. Oggi siamo noi a vantare questo triste primato.
E una svalutazione fiscale, che fa aumentare il prezzo delle im-
portazioni ma non quello delle esportazioni, cui non si applica
l’Iva, è l’unica consentita nella moneta unica.
Nell’arco della legislatura questa scelta di sopravvivenza po-
trebbe tradursi in una riduzione della pressione fiscale giocan-
do sui dividendi della crescita in termini di credibilità esterna
del nostro Paese, dunque minore spesa per interessi sul debi-
to. Un altro fattore che permetterà di ridurre le aliquote che
gravano sul lavoro è la lotta all’evasione fiscale e contributiva.
Anche su questo piano l’eredità del governo Conte è devastan-
te. È stato il governo del condonamento, dei condoni a piaci-
mento, quello che ha inaugurato i condoni contributivi, parti-
colarmente dannosi perché costano due volte (meno entrate e
più spese future quando potranno esser fatti valere i contribu-
ti condonati per ottenere più prestazioni). È stato il governo
che, con il “saldo e stralcio”, ha concesso selettivamente il be-
neficio dell’abbattimento delle tasse dovute proprio a chi ha si-
stematicamente non dichiarato i propri redditi al fisco. La bat-
taglia contro l’evasione fiscale e contributiva e per la riduzio-
ne della spesa pubblica può essere condotta con efficacia an-
che senza nuove leggi, anche senza un governo. La si combat-
te con le banche dati e i controlli preventivi. Quegli stessi con-
trolli che avrebbero evitato il contenzioso che si sta aprendo
sul Reddito di Cittadinanza a partire dalle irregolarità riscon-
trate dalla Guardia di Finanza. Sarà ora molto difficile recupe-
rare le somme indebitamente versate avendo a che fare con
persone, almeno sulla carta, con basso reddito. Nelle prossime
settimane dovranno essere portate a termine 70 nomine strate-
giche, tra le quali i presidenti o gli organi direttivi o i Cda di isti-
tuzioni fondamentali per la vigilanza sul sistema economico e
l’utilizzo delle banche dati amministrative nel contrasto all’e-
vasione: il Garante per la privacy, l’Autorità anticorruzione,
l’Inps e l’Inail. Le scelte che verranno fatte in questo contesto
sono fondamentali anche come segnale per le altre ammini-
strazioni pubbliche non coinvolte in questa affollata tornata
di nomine. Solo amministrazioni in grado di resistere alle pres-
sioni di breve periodo della politica possono farci vincere la
battaglia contro l’eccesso di evasione fiscale che contraddistin-
gue il nostro Paese. Oggi più che mai non abbiamo bisogno di
governi tecnici, ma di amministrazioni tecnocratiche e indi-
pendenti.

I segue dalla prima pagina

. Martedì, 20 agosto 2019 Commenti pagina^31

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