la Repubblica - 20.08.2019

(nextflipdebug5) #1
erché non ci sono
più i supereroi?
Un SuperMan o
una Wonder Wo-
man che difenda i
deboli, scali i grat-
tacieli, distrugga i
cattivi e gli arroganti? Domanda fre-
quente, che un “caso americano” ha
appena riportato all’attenzione. Que-
sta la storia. Ad Art Spiegelman, il fa-
moso autore della graphic novel
Maus — una rivoluzione nella narra-
zione dell’Olocausto — viene com-
missionata dalla grande casa editri-
ce Marvel un’introduzione per una
collezione sugli anni d’oro del fumet-
to americano, quelli intorno alla Se-
conda guerra mondiale, in cui com-
parvero per la prima volta nel consu-
mo di massa, i supereroi: Capitan
America, La Torcia Umana, Sub-Ma-
riner.
Spiegelman ne glorifica gli autori:
ad inventare questi personaggi salvi-
fici, erano stati giovani e poveri
ebrei arrivati in America da un’Euro-
pa che li aveva scacciati e stava pro-
grammando il loro sterminio; perso-
ne che avevano cambiato il loro no-
me perché non bene accetto, ma che
inconsciamente speravano che
quell’America facesse qualcosa per
loro e contro quell’Hitler, il capofila
degli Übermenschen, che trattava gli
ebrei europei come ratti per cui invo-
care la disinfestazione. E così, per
esempio, si immaginarono Capitan
America (di poche parole, ma dai
muscoli ipertrofici) che piomba sul

capo dei cattivi, Red Skull (Teschio
Rosso, alias Adolf Hitler) e lo schian-
ta con un gancio alla mascella. Auto-
ri erano i giovani Joe Simon e Jack
Kirby, siamo nel 1941 — prima di Pearl
Harbor, con l’America ancora neutra-
le, le navi dei profughi ebrei respinte
in Florida e l’Europa fortezza nazista.
La tiratura di Capitan America arrivò
a 800mila copie, gli autori erano cre-
sciuti nei bassifondi della Lower East
Side di New York e — secondo Spiegel-
man — avevano un debito di gratitudi-
ne verso quella Statua della Libertà
che li aveva accolti poveri e dispersi.
Da quelle parole incise nel marmo:
«Datemi i vostri poveri...», venne la
bella fantasia che ci fosse un campio-
ne a difendere tutta la povera umani-
tà. Non fu una cosa da poco, quel fu-
metto, perché mezza America, scate-
nata contro l’immigrazione e non an-
tipatizzante per quel nazista che in
Europa sapeva tenere l’ordine — pro-
testò pesantemente e cercò di intimi-
dire l’editore, la Marvel Comics, addi-
rittura manifestando sotto la sede.
Marvel Comics però tenne duro e il
“Capitan America” di fantasia contri-
buì, appena dopo Pearl Harbor, a da-
re fiducia a un paese reale messo in
ginocchio da Teschio Rosso. Messa
in altri termini: fu il fumetto di Cap-
tain America ad ispirare lo sbarco in
Normandia.
«Nel mondo reale contempora-
neo», aveva scritto Spiegelman nel
suo saggio, «il più malvagio nemico
di Capitan America, Teschio Rosso,
oggi vive sul grande schermo e l’Ame-

rica è perseguitata da un Teschio
Arancione». Il riferimento era ovvia-
mente a Trump, al colore dei suoi ca-
pelli e al suo razzismo. Ma alla Mar-
vel è bastata questa allusione, per ri-
fiutare il testo (che però il quotidiano
inglese Guardian ha pubblicato inte-
gralmente). Motivo: il proprietario di
Marvel è amico e finanziatore della
rielezione di Donald Trump. Ma for-
se si è trattato di qualcosa di più del

piccolo caso di un padrone pauroso
e zelante. Infatti, seguendo questa
censura e questa apparentemente
minuscola querelle, ci si può interro-
gare su temi più importanti, decisa-
mente avvincenti e soprattutto attua-
li, terreni dove si incontrano fanta-
sie, paure, animali, simboli e la no-
stra concezione della libertà.
Art Spiegelman, che ha introdotto
questi temi, è la persona da cui biso-
gna partire. Nato nel 1948, figlio di
due ebrei polacchi sopravvissuti ad
Auschwitz, disegnatore non com-
merciale, compì negli anni Ottanta
una delle grandi rivoluzioni artisti-
che del Novecento. Al termine di una
ricerca di 15 anni, frutto di creazione
letteraria e di un’autoindagine psi-
coanalitica, produsse una narrazio-
ne dell’Olocausto che sta alla pari
con quella di Primo Levi.
Piccoli, minuziosi e realistici dise-
gni in bianco e nero seguono il rac-
conto di Vladek Spiegelman, scontro-
so, disperato e solitario vecchio geni-
tore che parla al figlio dal piccolo ap-
partamento di Rego Park, Queens in
una inospitale New York. La grande
invenzione è che tutti, nella graphic
novel, hanno la faccia di un animale.
Gli ebrei sono topi (Maus è il tedesco
per topo), i nazisti sono gatti, i polac-
chi maiali, gli americani grossi cagno-
ni, l’Europa è una grande trappola
per topi. Tra fantasia e incubo, Spie-
gelman raccontava un mondo fin

©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Francesco Merlo

Napoli


contro Napoli


de Magistris


o De Simone?


La carezza


P


E


ravamo popolo e siamo
diventati gente», ha detto di
Napoli Roberto De Simone che della
meravigliosa Napoli mediterranea,
del suo paganesimo cristiano,
magico e popolare, è l’ultimo
studioso e allo stesso tempo il
Grande Vecchio, consacrato e
imbalsamato come una mummia
veneranda. Ho pensato subito a lui
quando, la settimana scorsa, Luigi
de Magistris si è candidato a fare il
premier, ovviamente nel nome di
Napoli, quella pittoresca però,
quella che il sindaco populista bene
interpreta da 8 anni, la napoletanità
lazzarona della retorica che ora
chiama «Repubblica partenopea
fondata sulla felicità». Ovviamente
non è la Napoli di Riccardo Muti, né
del teatro San Carlo che, dopo anni
di umiliazioni, ora de Magistris
vorrebbe addirittura comprare, e
non è quella di Martone, dei fratelli
Servillo e dei tanti scrittori di clima,
più o meno bravi, a partire dal
decano Dudù La Capria, maestro di
quella Napoletanità che, nella
geografia del pensiero meridionale,
è forse un eccesso di orgoglio
identitario, ma non è certo la
demagogia del sindaco e della sua
città-stato di straccioni. Soprattutto,
quella del sindaco, non è la Napoli
raffinatamente popolare,
settecentesca e tuttavia moderna, di
Roberto De Simone che dopo
Eduardo, e magari pure in
contrapposizione a Eduardo, è il più
grande di tutti e proprio per questo è
trattato con fastidio anche dai
sacerdoti del Nostos che spesso lo
ri-festeggiano ma poi lo ignorano,
subito dopo averlo seppellito di
applausi e di lodi che già somigliano
alle necrologie. A 86 anni l’autore
della Gatta Cenerentola e fondatore
della Nuova compagnia di canto
popolare non ha ancora ottenuto
quel Museo dell’Arte popolare
campana che da decenni
regolarmente chiede e regolarmente
gli promettono. Trattato come un
bisbetico, De Simone ha appuntito le
sue polemiche contro la volgarità, le
mafie, le clientele e dunque la gente
che gli ha rubato l’amatissimo
popolo. E vive barricato come un
sopravvissuto nella sua casa (in
affitto) di via Foria, piena di quadri,
preziosi pastori d’epoca, immagini
votive, mobili di vero antiquariato,
stampe, presepi, spartiti, strumenti
musicali, registrazioni inedite,
archivi sonori, una biblioteca di
storia e di tradizione che non ha
uguali tra i privati, e ovviamente
tutti i suoi manoscritti, gli originali
delle composizioni studiate in tutto
il mondo... Napoli, che è città dei
musei, non trova spazio per questo
museo che De Simone vorrebbe
intitolare al grande antropologo
Ernesto De Martino, che considera il
suo maestro. Anche se, studiando i
tarantolati, neppure De Martino
aveva previsto i populisti del
duemila, i sindaci di strada, i
moderni diavoloni plebei che di
nuovo provano a inchiodare Napoli
al destino crociano di “città dei
lazzari”. Il sindaco, che pure — anche
lui come gli altri — aveva promesso di
aprire il Museo è ormai troppo
concentrato sulla Napoletanità
neomelodica di Gigi d’Alessio, al
quale se potesse affiderebbe anche il
San Carlo.

il caso

Supereroi


salvateci


da Trump


Art Spiegelman accusa: “Capitan America


deve combattere il nuovo Hitler”


E la Marvel censura l’autore di “Maus”


di Enrico Deaglio


pagina. (^34) Cultura Martedì, 20 agosto 2019

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