Corriere della Sera La Lettura - 18.08.2019

(Tuis.) #1

50 LA LETTURA CORRIEREDELLASERA DOMENICA18AGOSTO2 019


LEMILLELUCI


DALLASTANZA


di JOHN FREEMAN


I


lmio primo appartamentoaManhattan era un
bucosquallido,con una lampada nera a ultravio-
letti installata in soggiorno, in un palazzo senza
ascensoredell’East Village. Le inquiline prece-
denti erano delle lugubricocainomani che ave-
vano dipinto le pareti di blu e il soffitto di un ar-
gento metallico. Nulla funzionava. La fiamma pi-
lota della stufa si spegnavacontinuamente. La porta del
bagno era scardinata, quindi bisognava trascinarla da-
vanti alvano per poter avere un po’ di privacy,come un
Cristochetornasse al sepolcro. La notteilpavimento
brulicava di scarafaggi.
Approdaiaquel luogo subitodopo l’università,
un’estate,con i miei due migliori amici, Scott e Brenn. A
metà degli anni Novanta vivere nell’East Village sembra-
vastranoepericoloso, soprattuttoinconfrontoalno-
strocampus universitario inseritoin350 acri di dolci
collineeruscelli, dovele pianteeranocontrassegnate
con i loro nomi latini. Non avevo mai vissutocon Scott o
Brenn, ma non ero preoccupato. Anche i più trasandati
sembravano rispettabili quando erano circondati da
tutti quei prati e giardini impeccabili.
La nostra nuovacasa incoraggiava una vita disordina-
ta. Di giorno era silenziosa e la luce era di un blu-grigia-
stro fino alle quattro del pomeriggio; nelle prime setti-
mane,tornavo acasa dal lavoro in unacasa editrice di
Midtown e trovavo Brenn che leggeva un libro sorseg-
giandotè, spaparanzato su una poltrona mezzo sfonda-
ta che avevamo trascinato su dalla strada. Brenn lavora-
vaquando ne avevavoglia, prendendo lavorettiela-
sciandoli quasi subito.Parlavacon un accento britanni-
coche aveva preso studiando in Scozia.
Scott era tutto lavoro (almeno quello era il suo atteg-
giamento). Ogni giorno faceva due ore di treno per an-
dare aStamford, in Connecticut, dovespiegava ai diri-
genticome tagliare icosti, perconto di una società che
rendeva milionari i funzionari da poco assunti. Il lavoro
ebbe un impatto immediato sul suo guardaroba. Ogni
mattina si abbottonava una delle sue sgargianticamicie
azzurreeinfilavamocassini da 400 dollaricontacchi
che risuonavano fino alla metropolitana. Lo sbattere
della porta dicasa era la mia sveglia.
Allora non lo sapevo, ma quelli furono gli anni in cui
ci sentimmo più vicini.Ve rso le 8 di sera Scott tornava a
casa e preparava i drink.Poi salivamo sultetto, fumava-
mo sigaretteNat Shermaneparlavamo della nostra
nuovavita. Sembrava strano che quelreticolo di luci in-
torno a noifosse NewYork. Ancora più strano chefosse
lo sfondo delle nostrevarie ambizioni,così vaghe che ci

avvolgevanocome un’aura di perenni aspettative.
Per sfuggire allavastità di quei sogni dovevamo farfe-
sta. Dopo aver ripulito le scarpe dalcatrame fuso delter-
razzo, scendevamo e andavamo in un bar o a ballare fino
alle 4 del mattino. Brenn non fumava, ma andava a se-
dersi in un angolocon un quaderno, e riusciva sempre a
stanare gli svitati dallafolla. «Checosa stai scrivendo?»,
gli chiedeva avolte una donna dall’aria leggermentefe-
rita, e dopo non lovedevamo più per qualche ora.
Capitava checercassimo il piacere per pura gioia ma
quello che ci faceva andare avanti era la paura. La mia
ragazza eratornata inPennsylvania per l’ultimo anno di
scuolaemimancavaterribilmente. Andarlaatrovare
peggiorava la situazione.Perciò rimanevo a NewYork e
uscivo. Brenn faceva la stessacosa, solo che la sua ragaz-
za viveva in Scozia, o in un posto del genere, il che signi-
ficava che Scott e io spesso uscivamo dall’appartamento
mentre lui era profondamente immerso in una di quelle
tipiche chiamate internazionali tra amanti separati.
Scott era l’unico di noi che aveva una fidanzata locale,
una scrittrice favolosa evolatile che viveva nell’exappar-
tamento diWoody Allen. Quando K. non era nei parag-
gi,cosa che succedevaspesso, Scottconducevaanche
me in giro per le strade della città a bere. Mi ha insegna-
toad aspirare quando fumavo, mi ha portato in discote-
che che ora sono chiuse. Quando ho letto Le mille luci di
New York , mi sono riconosciuto, a parte lacocaina.

Stranamente non era però il classicoromanzo diJay
McInerney a riecheggiare in noi, ma La stanza di Gio-
vanni diJames Baldwin. Ne avevotrovatounavecchia
edizione in una libreria che era in un seminterrato diSt.
Mark’s Place, e ci ero piombato dentrocome in untom-
bino che qualcuno non aveva richiuso. Era una storia av-
vincente e drammatica.Ungiovane americano di nome
David si trasferisceaParigi dopo la Seconda guerra
mondiale. Quando la sua ragazzavainvacanza, incontra
unvecchio che lo presenta a un barista italiano di nome
Giovanni.Idue uomini iniziano unarelazione furtiva
tornando a nottefonda nella stanza di Giovanni. «Ricor-
do che la vita in quella stanza sembrava svolgersicome
sotto il mare», dice David, e io riconoscevo quella sensa-
zione. «Iltempo scorrevaindifferentesopra di noi, le
ore e i giorni non avevano significato!».
Una dellecose strane del libro è che è raccontato in
prima persona e il narratore è bianco e nega di essere
gay,adifferenza diJames Baldwin. In uncertosenso,

con questo sconfinamento Baldwin permise anche a me
di superare i mieiconfini. Tradussi quella che era chia-
ramenteun’esperienza gay nella mia lingua, unacosa
che avevo già fatto. Non moltotempo prima di essermi
imbattuto nel granderomanzo di Baldwin, avevo letto Il
libro bianco diJean Cocteau e mi ero identificatocon il
suo spirito: non nel senso di desiderare uomini, ma nel
sentire strani o mostruosi i miei desideri. Nelcercaredi
incanalarliverso l’interno, di piegarli a qualcosa di utile.
Questoovviamente non succede ne La stanza di Gio-
vanni .Nelcorso delromanzo, mentrelarelazione di
David e Giovanni si approfondisce, David sirendeconto
di esserediventatoqualcos’altrosenza ammetterlo, e
cominciaasentirsi incredibilmenteincolpa, special-
mente nella prospettiva del ritorno della sua ragazza. La
confusione interiorediDavid si trasforma in azione
quando Giovanni uccide un uomo riccochetenta di
estorceresesso da lui incambio di un lavoro. «Le perso-
ne sono piene di sorprese», dice un tizio a David all’ini-
zio del libro, alludendo a quello che accadrà. «Nessuno
può rimanere nel giardino dell’Eden».

Come David aParigi, io mi ero trasferito a NewYork
per trovare una parte di me che sapevo esserci, ma che
non riuscivoaindividuare. In questa ricercaogni bar
dell’East Village sembrava una nuovastazione di pesatu-
ra. Ogni libreriaconteneva iltesto segreto, su ogni pan-
china aleggiavalasensazione che qualcosa stesse per
accadere. Ricordo quantofosse eccitante ogni nuovaco-
noscenza, quanto allorafosse porosa la mia vita.
Diedi il libroaimiei amici, che lo lesseroentrambi
avidamenteduevolte,eper tuttoquel primo anno
newyorchesecontinuammoanominarelastanza di
Giovanni. Se stavamo acasa senza fare nulla, Scott dice-
va:«Dai, usciamo dalla stanza di Giovanniefacciamo
qualcosa».Unpaio d’ore dopo, seduti sul divano lercio
di un bar, dopo un’altra serata inconcludente Brenn si
chinava e mormorava: «Torniamo alla stanza di Giovan-
ni». Finivacosì ogni sera. Dato che avevamo tutti la ra-
gazza, uscivamo perconto nostro e poitornavamo in-
sieme al nostro appartamento sconnesso, che era il no-
stro rifugio segreto, e rimanevamo alzati fino a tardi a
parlare,come sefosse questo l’evento principale, non le
precedenti ore nervose passate nei club o nei bar. Nes-
suno di noi era gay, ma eravamo molto legati e ancora
vicini a quell’età in cui uscirecon una donna era un po’
come tradire l’amico. In effetti eravamocosì invischiati

Percorsi
ilRaccontostraniero/1./1


Scott,Brenneiovenivamodauncampus


universitariopersofralecolline


eciritrovammoinunappartamentobrulicante


discarafaggi.MaeraNew Yorkeintornoanoi


brulicavaanchelavita.Misentivounpo’come


nelromanzodiMcInerney.Peròc’eraunaltro


librocheciaccompagnavainqueglianni


discoperte.Poivenneil1996,etuttocambiò

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