Cultura
N
ella primavera del 2016 la fo-
tografa Aïda Muluneh ha
inaugurato una mostra per-
sonale alla galleria David
Krut Projects di New York.
Nove anni prima era tornata in Etiopia, il
paese che aveva lasciato negli anni ottanta,
quand’era ancora bambina. La parte più
importante della mostra era la serie The
world is 9. Il titolo prende spunto da una fra-
se della nonna di Muluneh: “Il mondo è un
nove, mai completo e mai perfetto”. Per
un’artista la cui identità è stata definita dal
ritorno in patria da adulta, l’impossibilità di
una conclusione – nella vita delle persone e
dei paesi – è un tema potente.
Muluneh si è fatta notare già prima del
- Dopo essersi laureata alla Howard
university di Washington nel duemila, ha
lavorato come fotoreporter per il Washing-
ton Post. “Sei un’artista o una giornalista?”,
le chiedeva sempre il suo capo di allora.
Nelle foto usava spesso il grandangolo e pri-
vilegiava l’atmosfera e la composizione ai
dettagli, sfidando le convenzioni del foto-
giornalismo. “Devi deciderti”, le diceva il
suo capo, ma lei ha continuato a esplorare
diverse forme espressive. Due delle sue fo-
to sono entrate a far parte della collezione
permanente del museo d’arte africana della
Smithsonian institution, i suoi lavori sono
stati esposti al Moma e allo Hood museum
del Dartmouth college. Ma è stata la serie
The world is 9 a consacrarla tra le artiste visi-
ve più apprezzate in Etiopia.
“Non puoi pensare di poter contare
qualcosa in Etiopia se vivi a New York o da
qualche altra parte del mondo”, mi dice
Muluneh quando ci incontriamo ad Addis
Abeba. “Devi stare sul posto”.
Le sue foto, che ritraggono figure stiliz-
zate in abiti sgargianti, possono essere viste
come un’esplorazione creativa dell’identità
nazionale. A catturare l’attenzione sono so-
prattutto la composizione e i colori. Per chi
conosce le arti visive africane, queste im-
magini giocano in modo intelligente con la
storia e la familiarità. Lo sguardo di Mulu-
neh, affascinante e disorientante, riesce a
evocare un posto – l’Africa – e allo stesso
tempo a rovesciare le idee convenzionali
sul suo conto. La fotografa è a suo agio con
le contraddizioni, come prova il fatto che
sia in grado di conciliare un’estetica patina-
ta alla Vogue con il duro immaginario spes-
so associato all’Africa: paesaggi aridi, cieli
minacciosi, rimandi al sangue e volti deco-
rati con disegni tribali. La sua arte non è le-
ziosa e si muove su dislivelli notevoli: l’Afri-
ca come aspirazione e l’Africa come abisso.
Oggi le rappresentazioni visive dell’Afri-
ca richiamano la dolorosa eredità del colo-
nialismo proseguendo quell’opera di codi-
ficazione delle immagini che era essenziale
per il progetto imperialista. La foto pubbli-
cata dal New York Times nel 1993 di una
bambina affamata che viene osservata da
La fotografa etiope Aïda
Muluneh vuole rinnovare
l’estetica visiva africana
giocando con gli stereotipi
Uno sguardo
tra due mondi
Hannah Giorgis, The Atlantic, Stati Uniti
Foto di Aïda Muluneh
Fotografia
Fragments The bridge between