Le Scienze - 08.2019

(Ann) #1
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1 ); Chris Collingridge (

2 ); Malcolm Schuyl Alamy (

3 ); Anup Shah Getty Images (

macaco

)

Un altro approccio usato dagli animali consiste nel filtrare il ru-
more, spiegano gli scienziati che hanno indagato su come topi e
scimmie annullano il rumore visivo. Pur non potendo competere
con le sfingi, di notte questi mammiferi se la cavano piuttosto be-
ne. I ricercatori hanno scoperto che ci sono almeno due punti di
soglia lungo un percorso tra i loro fotorecettori e il cervello: per-
mettono il passaggio solo dei segnali forti, rifiutando quelli che
probabilmente sono rumore. A metà di questo percorso si trovano
guardiani, detti cellule bipolari dei bastoncelli. Si è scoperto che
queste cellule sono impostate per mandare avanti il segnale di «fo-
tone rilevato» solo se ricevono dai bastoncelli un input significati-
vo. Vari fotoni che arrivano insieme sono abbastanza forti, ma non
è detto che lo siano anche i fotoni singoli, e gran parte del rumore
nel sistema. Sempre su questo percorso, più in profondità nel si-
stema ottico, c’è un secondo posto di blocco cellulare, che ferma
i segnali vaganti non intercettati dal primo, oppure formati dopo
quel punto. Il risultato è una visione quasi priva di rumore, spiega
Petri Ala-Laurila, dell’Università di Helsinki, uno degli scienziati
che hanno identificato questo processo.

Guardare avanti
Pur con tutte queste ricerche, spiega Warrant, abbiamo appena
iniziato a capire la capacità degli animali di vedere al buio e le mo-
dalità con cui riescono a farlo. Ulteriori indizi possono arrivare da
studi di geni e molecole fotosensibili di cui sono dotati gli animali
notturni. Geni e pigmenti di alcuni lemuri notturni, per esempio,
suggeriscono che possano avere occhi sensibili al blu o al verde,
con cui potrebbero distinguere i semi blu e le foglie verdi al crepu-
scolo. E anche alcuni pipistrelli, che non sono affatto ciechi, come
molti credono, hanno i geni legati alla visione a colori.
In ogni caso, se un animale ha geni e molecole in grado di rile-
vare il colore non è detto che il suo cervello usi queste informazio-
ni dopo il crepuscolo. Per esempio, alcune molecole fotosensibili
sono collegate al mantenimento di ritmi corporei che non hanno
niente a che fare con la visione. Dunque gli scienziati devono an-
cora fare esperimenti comportamentali, come quelli con sfingi e
rane, per dimostrare che quelle molecole sono coinvolte nella vi-
sione notturna. Quel lavoro potrebbe indicare che le molecole non
sono usate al buio, o potrebbe rivelare trucchi di potenziamento
della visione che non abbiamo ancora immaginato. Q

lefoni in un faro più luminoso, vedreste bene quei 20 fari. La reti-
na, lo strato di tessuto che contiene bastoncelli e coni, fa altrettan-
to, raggruppando gli input di molti bastoncelli in un solo segnale
più intenso, inviato al cervello. Al concerto perdete l’immagine di
ogni persona che muove il telefono, lo stesso accade con l’accumu-
lo spaziale: l’immagine risultante è più luminosa, ma più sgranata.
Anche l’accumulo temporale aumenta la luminosità. I baston-
celli rallentano la propria attività, raggruppando gli input dai fo-
toni che arrivano, per esempio, per un periodo di 100 millisecon-
di. Ancora una volta si raggiunge un compromesso: questo tipo di
accumulo facilita il rilevamento degli oggetti, ma li rende sfocati
quando si muovono.
In alcuni insetti l’accumulo spaziale e quello temporale avven-
gono in parallelo, in cellule più spostate verso il cervello, secondo
la biologa Anna Stöckl, oggi all’Università di Würzburg, in Germa-
nia. Stöckl, ex dottoranda di Warrant, ha collocato sfingi davanti
a uno schermo su cui scorreva una serie di linee bianche e nere.
Quindi ha praticato un foro dietro la testa di ogni sfinge, collegan-
do elettrodi alle cellule. L’obiettivo era stimolare i fotorecettori con
ciascuna delle strisce che si alternavano e confrontarne l’attività
con quella di altre cellule nervose, situate più in profondità nel lo-
bo ottico del cervello. Questa area riceve il segnale dopo un’even-
tuale elaborazione o accumulo, quindi una differenza tra l’input
non elaborato a livello di fotorecettore e l’output nel lobo ottico in-
dicherebbe che il cervello ha modificato il segnale visivo.
Confrontando i valori di input e output, Stöckl ha calcolato che,
quando ha portato le falene dalla luce al buio, la grandezza di un
pixel nel loro lobo ottico è quadruplicata, una prova del fatto che
usassero l’accumulo spaziale. E ha scoperto che le falene sfrutta-
vano anche l’accumulo temporale, rallentando la visione al buio
per raggruppare gli input ricevuti nell’arco di 220 millisecon-
di. Come ha riferito Stöckl in un articolo nel 2016, l’abbinamento
permetteva alle sfingi di vedere bene con una quantità di luce 100
volte inferiore rispetto a quando non avveniva l’accumulo.
Warrant commenta: «Finora il fenomeno è stato rilevato solo
nelle sfingi, ma il principio è così semplice da far ritenere che deb-
ba essere diffuso».

Con luce scarsa,
le api del sudore ( 1 )
rilevano schemi dettagliati,
gli stercorari ( 2 ) si
orientano con la luce
delle stelle, le sfingi ( 3 )
mischiano segnali visivi per
rendere più chiare
le immagini
e i macachi nemestrini ( 4 )
eliminano le interferenze
da quello che vedono.

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Nocturnal Colour Vision-Not as Rare as We Might Think. Kelber A. e Roth
L.S.V., in «Journal of Experimental Biology», Vol. 209, n. 5, pp. 781–788, 1
marzo 2006.
Vision in Dim Light. Warrant E., in Visual Ecology, Cronin T.W., Johnsen S.,
Marshall N.J. e Warrant E.J. (a cura), Princeton University Press, 2014.
Vision in Dim Light. O’Carroll D. e Warrant E. (a cura), numero speciale di
«Philosophical Transactions of the Royal Society B», Vol. 372, 5 aprile 2017.

PER APPROFONDIRE
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