La ricerca di Dio nel dolore e nella detenzione
La detenzione nella cella dell’ospedale risultava ancora più dura di quella del carcere per cui l’opera
di beatificazione delle mie tribolazioni si sarebbe compiuta più intensamente, e la mia
comprensione sarebbe stata più limpida, più definita.
“Era per questo che mi trovavo li”, pensai determinato e convinto.
Non c’era altro motivo per essere obbligato a vivere quel supplizio, quella ingiusta carcerazione.
Le prime sofferenze che affrontavo erano la solitudine, l’emarginazione, la mortificazione della
cella ospedaliera isolata da sbarre di ferro molto spesse, confine amaro tra giustizia ed ingiustizia.
Per aprire la cella, per esempio ogni volta che dovevo andare al bagno, la guardia usava chiavi
massicce che procuravano uno smisurato e sgradevole rumore di ferraglia, un suono che
rimbombava nella mente esasperando la percezione e la crudeltà della detenzione.
Anche la chiusura della cella emetteva un suono tetro e l’eco rintonava in tutto il reparto facendo
vibrare persino le vetrate. In quel momento in cui nell’aria dominava una straziante solitudine.
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