Ricordo che il sangue mi ribollì nelle vene per l’eccitazione del momento!!
Quel suono ritmico e violento risvegliava emozioni realmente ancestrali per tutti i popoli del
mondo, dormienti nei cromosomi e ridestate come da un lungo letargo! Mi ricordava, senza averle
mai vissute, le rivolte degli schiavi, dei ribelli, degli oppressi, dei neri, in tutti i secoli, nell’intera
storia dell’umanità!
E provocava in me un profondo senso di appartenenza a quel popolo carcerario così emarginato e
martoriato, del quale mi sentivo ormai componente a tutti gli effetti, anche perché tutti credevamo
di aver subito ingiustizie disumane da parte della crudele società, definita erroneamente “civile”.
Quel suono mi faceva rivivere i riti delle antiche tribù, da cui tutti discendiamo, che erano ben
occultati nelle cellule del nostro corpo, soprattutto quelle del sangue che scorreva nelle nostre vene
e che tante vittime prima di noi avevano versato morendo come martiri!
Era l’eco della dignità perduta, della memoria storica degli oppressi!
Rappresentava la compattezza, l’unione, la fratellanza, di un popolo martoriato che aveva una
propria identità, e che veniva beatificata ed esaltata da quella ritmica e solenne melodia.
Come una sorta di inno nazionale, di commovente, magico, solenne canto per risvegliare un Paese
ferito e richiamarlo alle armi.
Come un raduno generale sotto un’unica bandiera, quella dell’immenso popolo carcerario.
Per alcuni detenuti particolarmente impegnati nel percuotere violentemente le sbarre, l’eccitazione
del momento corrispondeva ad una vera guerra, una rabbia che poteva esplodere come in un campo
di battaglia, ossessionati dalla vittoria a qualsiasi costo. Ma manifestavano una sorprendente
compostezza, una dignità che mi sorprese molto, infatti le urla non erano volgari e sbraitate ma ben
organizzate, come la ritmica dei tambureggiamenti. Si generava quindi una protesta forte ma nello
stesso tempo rispettosa del buon senso e dell’ordine.