Iniziai ad osservare con maggior enfasi tutto quanto fosse intorno a me, per fotografare con la
mente ogni oggetto e portarne con me un ricordo vivo!
Gli armadietti rotti appesi al muro, gli altri poggiati per terra che divennero dispense per tutti i
conforti alimentari, soprattutto le marmellate, i formaggini, le fette biscottate, i panini.
Altri ancora destinati a divenire improbabili guardaroba nei quali tutto sarebbe stato ammassato,
infatti preferii lasciare ogni cosa nelle buste.
Nel preparare le buste mi resi conto che non c’era neanche necessità di vestirmi perché rimasi con
gli stessi abiti per tutto il tempo trascorso in carcere, tranne durante il ricovero in ospedale dove
ovviamente rimasi sempre in pigiama. Fu una sciatteria, me ne resi conto, ma ebbe un significato
importante per me, perché non volli assolutamente adattarmi all’idea di dover interpretare la cella
come la mia nuova casa, sapendo che per motivi di salute sarei comunque dovuto rientrare ai
domiciliari prima o poi. Fu una trasandatezza, ma rincuorante.
Continuai a imprimere nella mia mente i ricordi ed osservai bene le finestre, davanti alle quali erano
tesi dei fili ove gli altri detenuti poggiavano gli abiti, anche intimi, ad asciugare dopo averli lavati in
bagno; io non ne ebbi mai bisogno perché avevo ricambi a sufficienza.
Le finestre in effetti erano la parte più caratteristica della cella perché mi ricordavano i modelli
inglesi, con squadrature di legno dappertutto, almeno così la mia creatività angelica interpretò
quelle che invece erano sbarre di ferro arrugginite, velate dalla tenda infeltrita.
E materializzavano il famoso detto: “il sole a scacchi”, tipico delle carceri.
Erano la parte più caratteristica della cella anche perché, infatti, entrava il sole, il vento, l’aria,
elementi naturali che ci facevano ancora sentire parte dell’universo, nonostante l’emarginazione
carceraria.
Le finestre ci consentivano di sognare, di immaginare, di desiderare, per questo le amai cosi tanto.