54 Le Scienze 6 15 novembre 2019
chia. Un esemplare maschio di seppia comune si avvicinò a una
femmina, la quale si allontanò con aria evidentemente indifferen-
te. Il maschio si mimetizzò con lo sfondo per sei minuti, lasciando
la femmina all’oscuro della sua continua presenza. Poi, all’improv-
viso, saltò fuori e la afferrò, fino a raggiungere la posizione di ac-
coppiamento testa a testa.
Nella specie australiana Sepia plangon, l’inganno va ben al di
là del camuffamento. Quando un maschio nuota avendo a sinistra
una possibile partner e a destra un maschio rivale, usa due segna-
li che contengono informazioni opposte: dal lato sinistro emette
i tipici segnali maschili del corteggiamento; dal lato destro, inve-
ce, emette i segnali tipici di una femmina. Al suo rivale, di conse-
guenza, sembra soltanto una femmina come tante altre. Geniale.
E subdolo!
Culum Brown, biologo della Macquarie University di Sydney,
e il suo team chiamano questo duplice segnale emesso da Sepia
plangon «inganno tattico», perché è impiegato intenzionalmen-
te e ha luogo in un contesto specifico (quando un maschio cor-
teggia una femmina in presenza di un solo altro maschio rivale).
Tra le tecniche usate dagli animali per ingannare il prossimo, il ca-
muffamento (o criptismo), il mimetismo e l’inganno tattico sono
fondamentali; come dimostra l’esempio della seppia australiana,
le divisioni tra le categorie non sono nette. Quando il tentativo di
imbrogliare è portato avanti intenzionalmente, si parla di ingan-
no tattico, si tratti di camuffamento, di mimetismo o di qualche al-
tro comportamento.
Inganni a tutto campo
È possibile che noi esseri umani, primati con una netta prefe-
renza per il senso della vista, siamo più predisposti a riconosce-
re i raggiri basati su false informazioni di tipo visivo. Ma anche gli
altri sensi possono essere ingannati. Il drongo codaforcuta è un
uccello che vive nel deserto del Kalahari, in Africa; quando avvi-
sta un predatore emette segnali di allarme sotto forma di vocaliz-
zazioni. A volte si tratta di segnali sinceri, che vanno a vantaggio
non soltanto degli altri dronghi, ma anche dei loro vicini – i garru-
li bicolori (Turdoides bicolor) e i suricati – che quando sentono i ri-
chiami dei dronghi cercano di mettersi al sicuro. Altre volte, però,
i dronghi non si comportano in modo onesto, e fanno una cosa ve-
ramente odiosa.
Può succedere infatti che un drongo, vedendo che un surica-
to si è impossessato di una preda particolarmente appetitosa, per
esempio un geco ben pasciuto, emetta falsi richiami di allarme
senza che vi sia alcun predatore. Il suricato, sentendo il segnale,
lascia cadere il cibo e si mette al riparo: ecco che allora arriva il
drongo, raccoglie il geco e se lo mangia. Lo zoologo Tom P. Flo-
wer, oggi alla Capilano University, nello Stato canadese della Bri-
tish Columbia, ha scoperto insieme ai colleghi che il cibo ruba-
to in questo modo costituisce quasi un quarto dell’assunzione di
biomassa dei dronghi. Qualsiasi opportunità di aumentare la pro-
pria quota di prelibatezze rubate, per questi uccelli, ha assoluta-
mente senso dal punto di vista evoluzionistico. Illustrazione di Bud Cook
Barbara J. King è professoressa emerita di antropologia
al College of William and Mary in Virginia, negli Stati
Uniti. I suoi studi sulle scimmie e le antropomorfe
l’hanno portata a investigare le emozioni e l’intelligenza
di un ampio ventaglio di specie animali.
UN TECNOLOGO SOCIALE
ALLA RICERCA DI RISPOSTE
Nel campo dell’apprendimento
automatico, la principale
questione epistemologica è:
quanto siamo bravi a testare un’ipotesi?
Gli algoritmi imparano a rilevare strutture e dettagli a partire da
insiemi enormi di casi specifici – per esempio, un algoritmo
potrebbe imparare a identificare un gatto dopo aver visto migliaia
di fotografie di gatti. Finché non avremo una migliore capacità
interpretativa, possiamo testare il modo in cui un certo risultato è
stato raggiunto usando gli algoritmi. Così facendo, però, evochiamo
il fatto che non abbiamo davvero la responsabilità dei risultati
ottenuti dai sistemi di deep learning, per non parlare dei loro effetti
sulle istituzioni sociali. Inoltre, è possibile che l’apprendimento
automatico sia una forma di rifiuto del metodo scientifico, che si
propone di scoprire non solo le correlazioni, ma anche i rapporti di
causa-effetto? In molti studi di machine learning, la correlazione
è diventato il nuovo articolo di fede, a discapito della causalità. E
questo solleva questioni concrete sulla verificabilità.
In alcuni casi potremmo star andando indietro. Pensate alla visione
industriale e all’identificazione delle emozioni: si tratta di sistemi
automatici che, a partire da fotografie di volti, estrapolano i dati per
prevedere razza, genere, orientamento sessuale o probabilità di
commettere un crimine di una persona. Approcci di questo tipo
preoccupano dal punto di vista scientifico e da quello morale, oltre
a riecheggiare frenologia e fisiognomica. L’enfasi sulla correlazione
dovrebbe farci sospettare, e non poco, sulla nostra capacità di avere
qualcosa da dire sull’identità delle persone. È un’affermazione forte
ma, se pensiamo ai decenni di ricerche su questi temi nelle scienze
umane e sociali, non dovrebbe essere controversa.
Kate Crawford è distinguished research professor all’Università
di New York, dove ha cofondato l’AI Now Institute;
è membro del comitato scientifico di «Scientific American»;
testo raccolto da Brooke Borel