I segue dalla prima pagina
L
a disoccupazione e la perdita di lavoro sono
tragedie immani, che hanno risvolti economici e
spesso relazionali tragici su intere famiglie. Ma proprio
per questo andare all’estremo opposto e salvare tutto e
tutti è altrettanto sbagliato.
Purtroppo, la realtà spesso ci impone delle scelte
dolorose, perché per salvare un posto di lavoro in
un’azienda con grande esposizione mediatica
rischiamo di distruggerne due in piccole aziende di cui
nessuno parla, o di condannare tre giovani a una
disoccupazione permanente. Non c’è un algoritmo
preciso che guidi questa scelta: ci sono aspetti
economici, umani e anche, inutile negarlo, politici.
È una questione di realismo e di ragionevolezza.
In base a questi criteri i casi di Ilva e Alitalia sono molto
diversi. Per l’Ilva non c’è un modo ragionevole e
realistico di evitare un intervento dello Stato, che si
decida di chiuderla o di continuare. Il caso di Alitalia
invece supera abbondantemente qualsiasi ragionevole
test di irragionevolezza. Alitalia ha avuto trent’anni per
raddrizzarsi; ha avuto aiuti di ogni genere; si sono
tentate tutte le soluzioni. Niente ha mai funzionato.
Non si può continuare a scommettere sui miracoli con i
soldi del contribuente. Soprattutto perché i soldi del
contribuente sono serviti spesso ad aggravare il
problema, puntellando le pretese sindacali di categorie
già molto ben pagate invece che indurle alla ragione. È
venuto il momento di dire: basta.
2) E qui interviene la difesa dell’italianità, che però
quasi sempre è puro pregiudizio ideologico, o frutto di
cattiva informazione. Una questione di prestigio?
Esattamente il contrario: non c’è nulla di cui vantarsi
nell’esibire al mondo un servizio scadente a costi
altissimi (comprese le tasse per ripianare le perdite)
solo per dipingere i timoni degli aerei di rosso bianco e
verde. Una questione di servizi? Se una rotta è
profittevole il posto di Alitalia sarà occupato da un’altra
compagnia in un nanosecondo; se non lo è, non vedo
perché io debba pagare più tasse per permettere a
poche persone di volare da Roma a Los Angeles senza
scalo. Una questione strategica? Davvero c’è chi crede
che Alitalia debba rimanere italiana per spostare le
truppe o per convertire gli aerei in bombardieri a lungo
raggio in caso di guerra?
3) In altri casi la difesa ad oltranza dell’italianità è frutto
di cattiva informazione. Supponiamo che uno straniero
voglia impossessarsi di Unicredit. Ha due modi per
farlo. Il primo è vendere a sua volta una azienda o un
po’ di case o un po’ di titoli di stato stranieri: in questo
caso Unicredit diventa straniera ma l’Italia si
impossessa di un po’ del resto del mondo. La differenza
è solo che la “perdita” di Unicredit fa più notizia.
Il secondo modo è se l’Italia importa dal resto del
mondo più di quanto esporta, cioè se ha un disavanzo
di partite correnti (al netto di qualche voce minore). In
questo caso deve pagare la differenza cedendo agli
stranieri dei cespiti patrimoniali: delle case, dei titoli di
stato, o appunto, un pezzo di Unicredit. Negli ultimi
anni le partite correnti italiani sono però in avanzo, e
negli ultimi trenta hanno oscillato tra modesti attivi e
modesti passivi.
Poiché non capiscono questo principio di contabilità
nazionale, in tanti gridano alla perdita di italianità
quando Parmalat viene ceduta ai francesi o Ilva agli
indiani o Italo agli americani o Alitalia (forse) ai
tedeschi; ma dimenticano che allo stesso tempo
Fincantieri acquista Stx e Fiat acquista Chrysler.
Spesso si obietta che gli stranieri sono furbi, e
comprano le nostre aziende pregiate a prezzi di
realizzo. Nessuno però ha mai spiegato concretamente
come Francia e Germania si uniscano in una
cospirazione per costringerci a vendere sotto il prezzo
“giusto”.
4) Poi c’è il caso più incomprensibile di tutti, un’azien-
da italiana (Unicredit) che vende azioni di un’altra azien-
da italiana (Mediobanca) e il M5S presenta una interro-
gazione sulla tutela degli interessi finanziari italiani. Ci
sono solo due modi per razionalizzare un’azione così in-
spiegabile: una abissale ignoranza, o un pregiudizio me-
dioevale, perché l’amministratore delegato di Unicredit
è francese.
Queste due ipotesi, non la perdita di italianità, dovreb-
bero veramente spaventarci.
Bucchi
di Roberto Perotti
L’analisi
Ilva e Alitalia, le differenze
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Riscaldamento globale
Quei peli nell’uovo
contro l’ambiente
di Stefano Mancuso
g
f
A Taranto non esiste un modo
realistico di evitare l’intervento
dello Stato. Per la Compagnia
trent’anni di sprechi
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I
l dibattito sul riscaldamento globale langue.
Che cosa è successo rispetto a un paio di mesi
fa? Come mai non si parla più del terribile
pericolo che incombe sulle nostre vite e
soprattutto su quelle delle prossime
generazioni? Ci sono stati, forse, dei significativi
miglioramenti nella situazione globale del
clima? L’Amazzonia non è più in pericolo? La
CO 2 nell’atmosfera ha smesso di aumentare?
Niente di tutto ciò. Come negli ultimi 50 anni,
con inflessibile regolarità, l’anidride carbonica
cresce, le temperature salgono, i deserti
avanzano, le foreste rimpiccioliscono, i mari si
alzano e le specie si estinguono.
Nulla di nuovo; sempre la stessa vecchia storia.
Una monotona routine, per quanto tragica, a cui
il pubblico assuefatto presta sempre meno
attenzione, nonostante rimanga il più grave
problema di fronte al quale si sia trovato
l’umanità nella sua storia.
È disarmante, ad esempio, assistere di fronte
alla vastità del problema, alla pochezza della
risposta politica. In prossimità di appuntamenti
elettorali o in momenti cruciali della vita
istituzionale del Paese il tema dell’emergenza
climatica diventa di colpo ineludibile; poi, con
la stessa velocità con la quale era apparso,
scompare.
Stiamo trasformando il riscaldamento globale
in qualcosa di simile all’evasione fiscale: un
problema di cui è opportuno parlare, ma che —
lo sappiamo tutti — non sarà mai risolto. È un
errore che dobbiamo evitare. Non dobbiamo
lasciare che la noia o peggio, l’ineluttabilità del
cambiamento, ci distraggano dalla urgenza di
informare correttamente quante più persone
possibile sulla realtà di ciò che sta accadendo e,
soprattutto, dalla necessità di trovare soluzioni
praticabili. Non dobbiamo permettere, ad
esempio, che un minuscolo gruppo di rumorosi
negazionisti metta in dubbio la “indubitabilità”,
come è stata definita dall’Intergovernmental
Panel on Climate Change, del riscaldamento
globale. Nessuno dovrebbe dare loro un
palcoscenico su cui esibirsi. Così come non
dovremmo lasciare che si metta sullo stesso
piano l’enormità di ciò che sta effettivamente
accadendo al nostro Pianeta e il vacuo esercizio
popolare del ricercare il pelo nell’uovo
nell’attività di chi cerca di fare qualcosa. Greta
prova a scuotere il mondo dal suo torpore e cosa
ricordiamo del suo viaggio negli Usa? Che a
bordo della barca con cui ha attraversato
l’oceano, c’era una bottiglietta di plastica. In
giro per il Pianeta fioriscono centinaia di
iniziative e appelli a piantare alberi e, di nuovo,
quale è la risposta? Altri peli nell’uovo: è facile
dire piantare alberi, senza specificare che
alberi, come piantarli e come mantenerli. Peli
nell’uovo, sempre e solo peli nell’uovo. Intere
matasse di peli che, spesso intenzionalmente,
altre volte inconsapevolmente, distolgono
l’attenzione dall’essenza del vero problema,
ossia che se non limitiamo drasticamente e
subito le emissioni di gas serra, il clima del
Pianeta cambierà in maniera incompatibile con
il mantenimento della nostra civiltà; che non
fare nulla, (il cosiddetto modello business as
usual) porterà a un aumento della temperatura
media del pianeta, entro il 2100, di almeno 4
gradi, trasformando il clima di Trieste in quello
di Catania e quello di Catania nel clima di una
città del Sahel; che per la stessa data, a causa
non tanto dello scioglimento dei ghiacci quanto
dell’espansione termica dell’acqua (l’acqua
aumenta di volume con l’aumentare della
temperatura) il livello del mare crescerà di 65
centimetri cambiando per sempre il volto di
intere nazioni, Italia compresa.
Con queste premesse, è delittuoso che “peli
nell’uovo” giustifichino l’inazione; cosi come è
ingenuo pensare che l’innovazione tecnologica
sarà in grado di risolvere il problema, adattando
la natura ai nostri desideri. Non è successo negli
ultimi 50 anni e non succederà nei prossimi
cento: siamo noi a doverci adattare al nostro
ambiente, non il contrario e il tempo per
comprenderlo sta finendo.
L’autore è direttore del Laboratorio
internazionale di Neurobiologia vegetale
di Firenze
. Sabato,9 novembre^2019 Commenti pagina^35