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allarme climatico è una cosa
troppo seria e importante
perché lo si lasci degradare
ad allarmismo. Buona parte
dell’informazione meteo,
con poche e lodevoli
eccezioni, è appaltata a siti
che annunciano la catastrofe già
domattina, esagerando tono e volume
come se monitorare lampi e tuoni li
autorizzasse a essere tonanti e
lampeggianti.
Si annuncia la Siberia se cade un fiocco di
neve, il Sahel se non piove da due giorni.
La glaciazione se l’inverno, come è suo
diritto, tocca il sottozero, la morte per
disidratazione di nonni e neonati se il
termometro supera i trenta gradi.
Il fenomeno, annoso e già lungamente
segnalato in questa piccola rubrica (che ha
anche una sua umile vocazione
naturalistica) si è molto aggravato da
quando “clima” è diventata una parola
molto di moda. Un prodotto che “tira”.
Spararla grossa, possibilmente più grossa
della concorrenza, è diventata una
strategia di mercato per strappare qualche
clic in più. Se l’effetto è ansiogeno, meglio.
Il meteo “de paura”, al botteghino, va
decisamente a ruba.
Si tratterebbe, però, di fare informazione
su basi scientifiche. Le isobare, i venti, i
cumulonembi, i cirri, le correnti oceaniche
sono fattori maestosi della vita sulla Terra,
compresa la nostra. Come sarebbe bello
parlarne con rispetto e dunque con un
normale tono di voce, non strabuzzando
gli occhi e sgranando le tonsille. Il rischio
è che se gridare “al lupo, al lupo!” diventa
un giochino quotidiano, un trucco da
imbonitori, quando il lupo arriverà
davvero nessuno sarà preparato a
riceverlo.
G
iuseppe Provenzano non ha proprio la fama di
attaccabrighe. Prima di impegnarsi in politica con
il Partito democratico e diventare ministro di questo
quantomeno insolito governo giallo-rosso faceva di
mestiere lo studioso: all’età di trentasei anni
vicedirettore della Svimez, l’associazione pubblica che
con competenza e dedizione segue da decenni i
problemi del Sud martoriato.
E per quanto ne sappiamo, su di lui le suggestioni
neoborboniche non hanno mai fatto presa.
Riesce allora difficile non immaginare che ieri gli sia
semplicemente scappata la frizione con quella battuta
sul presunto egoismo di Milano «città che attrae ma
non restituisce quasi più nulla di quello che attrae»
(testuale Ansa), durante il convegno dell’ Huffpost.
Forse capita, quando uno è sotto pressione da giorni
per una rogna mica da ridere come quella
dell’Alcelor-Mittal che saluta e se ne va da Taranto
rischiando di lasciare a spasso quindicimila persone.
Ma per un ministro che ha il delicato incarico non
soltanto di occuparsi del Mezzogiorno, ma anche (come
dice l’intestazione del suo ministero) della “coesione
territoriale” di un Paese che rischia lo strappo doloroso
fra un Nord ricco e un Sud che annaspa fra emigrazione
e disoccupazione, quella battuta non è proprio il
massimo dell’opportunità. Il contrario della “coesione”,
e non soltanto per ragioni istituzionali o politiche.
Mettiamo pure che ci sia un fondo di verità nella
circostanza, come dice lui, che “intorno a Milano si è
scavato un fossato: la sua centralità, importanza,
modernità e la sua capacità di essere protagonista delle
relazioni e interconnessioni internazionali non
restituisce quasi niente all’Italia”.
Ebbene, chi l’avrebbe scavato quel fossato? Forse i
milanesi? O piuttosto chi altrove non ha saputo, negli
anni in cui Milano cresceva e diventava una città
sempre più europea, dove i trasporti e gli altri servizi
pubblici funzionano meglio rispetto ad altre parti
d’Italia, dare risposte su quello stesso piano ai bisogni
dei cittadini? La stessa Svimez non sottolinea forse
come la pessima qualità dei servizi sia un elemento non
trascurabile del contesto che spinge i giovani istruiti a
scappare dalle Regioni meridionali? Del resto, per
capire come l’abisso si sia spalancato non bisogna
spingersi nemmeno troppo al Sud: basta fermarsi a
Roma e apprezzare in che condizioni è ridotta la
capitale. Con l’unica certezza che se i trasporti sono a
pezzi e la città è ridotta a un’immensa pattumiera non è
colpa dei milanesi.
Certo, Milano non è indenne dai mali che affliggono
tutto il Paese. Lo dicono con chiarezza le inchieste
giudiziarie sulla sanità, costate una pesante condanna
per corruzione all’ex governatore Roberto Formigoni,
mentre la vicenda degli appalti dell’Expo 2015 ha
confermato che purtroppo nessuna città può fregiarsi
del titolo di capitale morale.
Ma non ha del tutto torto il sindaco Giuseppe Sala
quando rispondendo a Provenzano afferma che «le
imprese straniere qui si sentono rassicurate perché
sanno che il sistema funziona».
Anche se “funziona”, in Italia, è comunque una parola
grossa e la burocrazia non risparmia neppure il
capoluogo della Lombardia.
Tuttavia il caso milanese dimostra come la normalità,
pur in un Paese come il nostro, non sia impossibile.
Serve solo la combinazione di alcuni ingredienti che in
una nazione occidentale sviluppata dovrebbero essere
presenti ovunque: un’amministrazione mediamente
capace e una politica mediamente responsabile, oltre a
un senso civico sufficiente e a un po’ di buonsenso.
Peccato che qui tale combinazione sia merce
abbastanza rara. E forse da una città come Milano, caro
ministro, converrebbe prendere l’esempio.
Per uscire dal fossato nel quale siamo: l’unico che
esiste.
N
on bastavano movimenti e governi sovranisti a
sabotare il cammino dell’Unione verso la nascita di
un soggetto geopolitico continentale. Ora a creare
ostacoli e problemi ci si stanno mettendo anche forze
politiche e Paesi sul cui entusiasmo europeista di fondo
non ci sarebbe ragione di dubitare. Se non fosse,
appunto, che questo ardore viene talvolta declinato in
modi e tempi tali da realizzare obiettivi opposti a quelli
conclamati. Rende testimonianza esplicita di questa
sorta di schizofrenia politica la polemica che si è aperta
dopo il veto del presidente francese a un pronto ingresso
di Albania e Macedonia del Nord nella Ue.
I sostenitori dell’allargamento del tavolo comunitario –
fra i quali, in prima fila, l’Italia – hanno ottime e valide
ragioni per la loro tesi.
Una per tutte: entrambi i candidati in questione sono
Paesi relativamente piccoli (cinque milioni di abitanti in
totale) ma per collocazione geopolitica possono avere un
ruolo strategico che sarebbe pericoloso lasciare a
disposizione di qualche “lord protettore” non amico
della Ue. Si aggiunga poi che, fin dai tempi di Charles de
Gaulle, Parigi ha il cattivo vezzo di porre sovente i suoi
interlocutori europei di fronte a prese di posizione
unilaterali espresse in termini fastidiosamente perentori
e ultimativi. E nel caso specifico Emmanuel Macron non
ha cambiato stile. Cosicché i modi della sua iniziativa
hanno finito per creare diffusa irritazione fra gli altri soci
Ue cancellando dal confronto la ragion politica del veto
francese, che pure esiste e con una sua innegabile
solidità.
Il tumultuoso allargamento dell’Unione verso i Paesi
dell’ex-blocco sovietico avrà forse e in parte contenuto le
rinnovate ambizioni espansionistiche del Cremlino a
guida Putin. Quel che, invece, risulta certo è che
l’impatto dell’operazione Est-Europa ha avuto pesanti
effetti distorsivi sugli equilibri istituzionali e funzionali
dell’Unione. In particolare, lo slancio verso una
maggiore integrazione di poteri sovranazionali, che
dopo l’esordio dell’euro sembrava destinato a dare frutti
importanti, si è arrestato quasi di colpo. E l’Europa è
caduta nell’immobilità di uno status quo che assomiglia
sempre di più a una sorta di coma politico indotto
proprio dal grave errore di aver spalancato le porte del
Consiglio europeo senza curarsi di adeguare criteri e
meccanismi dei processi decisionali.
Da un lato, la dialettica politica fra Paesi è stata chiamata
a fare i conti con realtà nazionali che in forza del loro più
recente riacquisto di sovranità si sono rivelate
indisponibili ad assecondare un processo di
trasferimento di poteri legislativi ed esecutivi a livello
comunitario. Dall’altro lato, decidere all’unanimità in
ventotto si è dimostrato un esercizio defatigante che, fra
i danni collaterali, ha finito per dare spazio a una sorta di
mercato nero di indulgenze politiche e favori economici
come quello pernicioso che si è creato fra la Germania e
alcuni novizi dell’Est. Con l’effetto di aver creato un tale
intreccio di compromessi paralizzanti da impedire
qualunque decisione di lungo respiro a cominciare dalla
prioritaria riforma della governance del sistema.
La lezione degli errori è di lampante chiarezza: l’Unione
non può essere concepita come un circo equestre dove
più gente entra più bestie si vedono. Con questo spirito
si fa il male e non il bene della costruzione europea. Le
cui fondamenta oggi vanno urgentemente riconsolidate
ma per cerchi concentrici e per sottrazioni selettive.
g
La vignetta di Biani
L’
ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO
di Michele Serra
L’amaca
Più rispetto
per le isobare
di Sergio Rizzo
La polemica del ministro Provenzano
Quanto Sud c’è a Milano
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di Massimo Riva
Il ratto d’Europa
Gli strani veti di Parigi
f
Il no ad Albania e Macedonia
ha provocato irritate reazioni
Con questo spirito la Francia
fa il male della Ue
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pagina. (^26) Commenti Martedì, 12 novembre 2019