Il Sole 24 Ore Sabato 19 Ottobre 2019 19
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LE BIG TECH SONO TASSABILI, BASTA VOLERLO
I
l laborioso parto della Legge di
bilancio ha visto il governo, co-
me tutti quelli che lo hanno pre-
ceduto, barcamenarsi nel tenta-
tivo di finanziare le misure pre-
viste nel proprio programma
senza “mettere le mani nelle tasche
dei cittadini”. Un esercizio sempre
più difficile, visto che la crescita
anemica e un’evasione fiscale anco-
ra troppo elevata riducono la base
imponibile, e obbligano quindi a te-
nere alta la pressione fiscale sui po-
chi che pagano le tasse.
Eppure, l’incapacità di reperire ri-
sorse non è un’inevitabile conse-
guenza della globalizzazione, come
alcuni amano credere. Le imprese
multinazionali evitano da sempre
gran parte della tassazione facendo
“viaggiare” costi e ricavi tra filiali si-
tuate in Paesi diversi. Le cose sono
peggiorate con l’avvento delle socie-
tà digitali, con attivi in gran parte in-
tangibili. La mobilità della base im-
ponibile contribuisce a ridurre la ca-
pacità di azione dei governi naziona-
li creando problemi di
disuguaglianza e di sfiducia che fini-
scono per minacciare la tenuta delle
democrazie liberali.
L’Fmi ha stimato una perdita to-
tale di gettito fiscale di miliardi
di dollari annui. Questo è un bacino
di risorse che i governi nazionali
potrebbero utilizzare per finanzia-
re obiettivi di lungo termine, come
la transizione ambientale, la rifor-
ma dello stato sociale, le infrastrut-
ture (materiali e immateriali). Inol-
tre, la capacità di eludere il fisco
consente alle multinazionali di be-
neficiare di un vantaggio competi-
tivo sulle imprese domestiche, un
problema particolarmente sentito
nel nostro Paese.
La discussione in corso da alcuni
anni sulla tassazione delle multina-
zionali parte da un principio sempli-
ce e intuitivo: a dispetto della molti-
tudine di personalità giuridiche e di
filiali che compongono una società
multinazionale, questa ai fini fiscali
dovrebbe essere considerata come
un’entità unica. I profitti globali do-
vrebbero poi essere “allocati” ai vari
Paesi in cui questa opera, secondo
un algoritmo che consideri vendite
(o utenti per le società digitali), oc-
cupazione o altri parametri. Un ac-
cordo internazionale dovrebbe poi
fissare un tasso minimo di imposi-
zione (la Icrict, una commissione tra
i cui membri figurano Thomas
Piketty e Joseph E. Stiglitz, ha pro-
posto un tasso del %), e ogni Paese
avrebbe diritto alla quota determi-
nata dall’algoritmo (rimanendo li-
bero di imporre una tassazione ag-
giuntiva se lo desidera).
Ovviamente, in un mondo ideale,
a tale accordo parteciperebbero tutti
i Paesi. Ma perché il sistema funzio-
ni, e le grandi multinazionali non si-
ano più incentivate a trasferire i
profitti nei paradisi fiscali (alcuni
dei quali, giova ricordarlo, sono in
Europa), basterebbe la volontà poli-
di Francesco Saraceno
SANARE LA FRATTURA TRA GENERAZIONI
CON AMPIO ACCESSO ALLA FORMAZIONE
L’
Italia è entrata in que-
sto secolo attraversata
da profonde e ben rico-
noscibili fratture che
non si sono ridotte nel
corso di questi due pri-
mi decenni, con la conseguenza di
accentuare una fragilità strutturale
che rischia di compromettere tutto
il percorso successivo.
Come ampiamente documentato
in molte analisi, gli indicatori eco-
nomici e sociali del Sud rimangono
lontani da quelli del Nord e dalla
media europea, senza l’evidenza di
un chiaro e solido processo di con-
vergenza. Donne e giovani conti-
nuano a presentare livelli di parteci-
pazione al mercato del lavoro molto
più bassi rispetto agli uomini adulti.
Chi nasce in famiglie con status so-
ciale basso ha molte meno possibili-
tà di raggiungere alti livelli di istru-
zione e di accedere a impieghi ben
remunerati. Gli immigrati residenti
rimangono vincolati a un rischio di
povertà notevolmente più alto, an-
che a parità di altre caratteristiche,
rispetto alla popolazione autoctona.
Il dibattito pubblico su questi di-
vari, visti da sinistra o in ottica libe-
rale, oscilla tra i due estremi delle
diseguaglianze da ridurre e del me-
rito da promuovere. Entrambe que-
ste due posizioni, se declinate in
senso stretto, risultano però parzia-
li. La riduzione, in sé, delle disegua-
glianze non necessariamente mi-
gliora le condizioni di sviluppo del
Paese. D’altro canto un’accentua-
zione della spinta meritocratica
senza consentire pari opportunità
in partenza, non aiuta a ridurre le
diseguaglianze ma nemmeno mi-
gliora l’efficienza complessiva del
sistema. Ad esempio, i bambini più
aiutati a casa ottengono voti più ele-
vati in classe anche nel caso di mi-
nori capacità rispetto a chi non ha
supporto.
Il maggior contributo alla ridu-
zione delle fratture può arrivare, al-
lora, dall’investimento collettivo nei
contesti in cui la riduzione delle di-
seguaglianze fornisce energia ai
processi di sviluppo del Paese. Que-
sto consente, metaforicamente, di
ottenere i maggiori frutti dal terre-
no potenzialmente più fertile ma la-
sciato colpevolmente incolto (molto
più che negli altri Paesi con cui com-
petiamo), per poi progressivamente
intervenire sui terreni con rendi-
menti decrescenti. Questo permette
di ottenere in partenza i migliori ri-
sultati in termini sia di riduzione
delle diseguaglianze sia di crescita,
con una spinta che poi aiuta a raf-
forzare il welfare anche sulle voci
meno attive. L’indicatore principale
a cui dovremmo allora guardare,
per politiche che consentano di su-
perare le grandi fratture italiane e
rinsaldare il processo di crescita, è
quello che misura quanto chi parte
da posizioni più svantaggiate riesce
a migliorare la propria condizione.
Una delle più gravi fratture di cui
soffre il nostro Paese - una di quelle
inasprite di più nel passato recente,
che attualmente risultano tra le più
accentuate anche nel confronto con
gli altri Paesi, con più gravi implica-
zioni sul futuro - è quella generazio-
nale. Chi è giovane oggi in Italia si
trova con un livello del debito pub-
blico lievitato enormemente; in una
economia con i più bassi tassi di cre-
scita dal dopoguerra; con più ridot-
to peso demografico; con mobilità
sociale inceppata (con conseguenti
minori possibilità di migliorare
propria situazione). Eppure da dove
può ritrovare il Paese possibilità di
crescere e ridurre il debito pubblico
se non dal pieno contributo attivo
delle nuove generazioni?
È bene aver chiaro i dati della di-
sastrosa situazione attuale. Dati che
aiutano anche a capire che la que-
stione è molto meno da ricondurre
a quanto le generazioni più mature
hanno (in termini di occupazione,
reddito e trattamento pensionisti-
co) e molto più a quanto alle nuove
generazioni manca. Con aiuto che
arriva, di fatto, solo dai propri geni-
tori, ma risulta inefficiente nell’allo-
cazione delle risorse per lo sviluppo,
andando anche a inasprire le dise-
guaglianze di partenza. Un processo
di rimessa in discussione di posizio-
ni e diritti acquisiti funziona solo se
alla base c’è un patto di investimen-
to collettivo sulla crescita comune,
ovvero un patto sociale e generazio-
nale che porta le risorse pubbliche a
convergere verso gli strumenti che
trasformano i giovani in parte attiva
e qualificata nei processi di sviluppo
competitivo del Paese.
I dati allora ci dicono che la spesa
per pensioni e sanità pubblica sul Pil
non è maggiore rispetto alla media
europea, ma quella su formazione,
politiche attive, ricerca e sviluppo è
nel complesso da troppo tempo
sensibilmente inferiore. I tassi del-
l’occupazione degli uomini adulti
italiani non sono più alti rispetto al-
le altre economie avanzate, ma
quelli in età giovanile sono impieto-
samente tra i più bassi (oltre
punti sotto la media Ue in età -).
Il rischio di povertà assoluta delle
famiglie con membro di riferimento
anziano è consolante che sia infe-
riore al %, ma è inaccettabile che
sia oltre il doppio quello con perso-
na di riferimento under . Così, di
fatto, si difende il benessere passato
acquisito senza investire sulla pro-
duzione di nuovo benessere. Ed è su
questo nodo che devono intervenire
di Alessandro Rosina
L’FMI STIMA
UNA PERDITA
DI GETTITO
DI 500 MILIARDI
DI DOLLARI
ALL’ANNO
tica di pochi grandi Paesi. Immagi-
niamo che gli Stati Uniti e la Ue, i
mercati principali delle multinazio-
nali, annunciassero che la quota dei
profitti attribuiti loro dall’algoritmo
verrà assoggettata a un tasso di im-
posizione pari alla differenza tra il
% e il tasso pagato nella sede lega-
le; gli incentivi per le multinazionali
di dichiarare i profitti in Paesi come
l’Irlanda, i Paesi Bassi o il Lussem-
burgo, sarebbero fortemente ridot-
ti, visto che i profitti generati nei
mercati principali sarebbero co-
munque imposti al tasso comune. È
in tal senso incoraggiante che al
commissario Gentiloni sia stato uf-
ficialmente affidato il compito di
portare a compimento il lavoro sulla
creazione di una base imponibile
unica per le società operanti nel-
l’Unione europea (Common consoli-
dated corporate tax base, o Ccctb).
L’Ocse ha presentato una propo-
sta, che verrà discussa dal G, e per
la prima volta sembra esserci un ac-
cordo sulla possibilità di una tassa-
zione unitaria non dipendente dalla
giurisdizione fiscale. Ma, come sem-
pre in materia fiscale, il diavolo si
annida nei dettagli, e il rischio di un
accordo al ribasso è reale. In partico-
lare, il gruppo sembra orientato a
proporre una distinzione tra profitti
“normali” e profitti “residui”, con
solo questi ultimi soggetti a tassa-
zione sulla base dell’algoritmo e non
della giurisdizione fiscale. Nessun
sistema fiscale nazionale è basato su
una distinzione del genere, che non
ha giustificazione economica e apre
la via a una miriade di problemi sulla
definizione di cosa sia un profitto
normale. La misura insomma rischia
avere solo un impatto simbolico.
È importante che il governo ita-
liano prenda in seria considerazio-
ne questo problema e adotti una
posizione chiara in seno al G,
poiché da questo dipende la propria
capacità di aumentare le entrate fi-
scali, ottenere un fisco più giusto, e
ridurre lo svantaggio competitivo
delle imprese italiane. Un governo
alle prese con un’economia sta-
gnante e con risorse sempre più
scarse non può permettersi di tra-
scurare questa opportunità.
Sciences Po Parigi e Luiss
© RIPRODUZIONE RISERVATA
le scelte di una politica che non
guarda solo al consenso immediato.
La frattura generazionale ha poi
all’interno, come abbiamo detto,
anche una frattura sociale. La com-
binazione fra tali due fratture costi-
tuisce la principale debolezza strut-
turale dell’impianto che dovrebbe
sostenere la crescita solida del Pae-
se, andando inoltre ad alimentare
tensioni sociali, populismi e insta-
bilità politica.
Non si può quindi che ripartire da
un accesso solido e ampio alla for-
mazione del capitale umano, ag-
ganciato a un miglioramento delle
aspettative di sua valorizzazione
piena, in un Paese che lo considera
come il carburante più prezioso per
un rilancio delle sue prospettive di
sviluppo presente e futuro. Questo
significa partire dal prendere atto
che se i livelli di formazione terzia-
ria sono così bassi in Italia è perché
mancano all’appello soprattutto i fi-
gli dei genitori delle classi sociali più
basse. È cruciale allora mettere tutti
nelle condizioni di effettiva possibi-
lità di accesso alle migliori posizio-
ni, a partire da chi è rimasto più in-
dietro, in funzione delle proprie doti
(e non della dotazione iniziale) e
delle condizioni del mercato (ma
contribuendo a espanderlo).
La contrapposizione tra equità e
merito va superata mettendo al
centro la dimensione della costru-
zione di benessere collettivo, mi-
rando prima di tutto a ridurre gli
inaccettabili divari di opportunità
nella partecipazione ai processi di
crescita del Paese. È dentro a tali di-
vari che si trova oggi il terreno più
fertile da coltivare.
á@AleRosina
© RIPRODUZIONE RISERVATA
METTERE TUTTI
NELLE
CONDIZIONI
DI PARTECIPARE
ALLO SVILUPPO
DEL PAESE
20
PUNTI SOTTO
LA MEDIA UE
I tassi
dell’occupazione
degli uomini
adulti italiani non
sono più alti
rispetto alle altre
economie
avanzate, ma
quelli in età
giovanile sono
impietosamente
tra i più bassi
(oltre 20 punti
sotto la media Ue
in età 25-29).
POLITICHE PER LA CRESCITA
ALL’EUROZONA
SERVE UN FONDO
PER INVESTIMENTI
—Continua da pagina
S
ul banco dell’accusa vengono poste le
politiche monetarie espansive condotte
principalmente dalla Federal Reserve
americana e dalla Banca centrale euro-
pea a fini di stabilizzazione dell’econo-
mia e di contrasto alla deflazione. In
Europa critiche particolarmente aggressive hanno
investito la recente decisione della Bce di iniziare
una nuova fase di forti iniezioni di liquidità tramite
acquisti ingenti di titoli sui mercati secondari a
fronte del peggioramento delle principali economie
europee. Le critiche più pesanti sono venute dalla
Germania e da altri Paesi nordici che imputano ai
tassi di interesse negativi determinati da queste po-
litiche effetti dirompenti sui sistemi assicurativi e
sui rendimenti dei fondi pensione, e più in generale
sulla componente dei redditi delle famiglie che deri-
va dal rendimento dei risparmi.
L’opposizione tedesca a un’ulteriore espansio-
ne della liquidità in Europa non è, tuttavia, accet-
tabile perché ciò che ha reso necessario l’uso estre-
mo dello strumento monetario come unica politica
europea attuabile per contrastare il forte rallenta-
mento dell’economia è proprio la resistenza della
Germania e di altri Paesi ad adottare misure di
espansione fiscale.
D’altra parte, non c’è dubbio che il sostegno al-
l’economia non possa basarsi solo sulla politica mo-
netaria e che l’Europa e il mondo abbiano bisogno
di una politica fiscale accomodante anche per con-
sentire alla stessa politica monetaria di conseguire
efficacemente i suoi obiettivi di stabilizzazione e di
contrasto alla deflazione.
Infatti, nonostante la massiccia iniezione di li-
quidità operata dalla Bce con le politiche di quanti-
tative easing sia stata fondamentale per salvare
l’euro nella fase di crisi dei debiti sovrani e per usci-
re dall’ultima recessione, essa non ha ancora porta-
to i tassi di inflazione ai livelli desiderati e non si è
riflessa in un aumento significativo degli investi-
menti privati e pubblici.
Ma non è la necessità di una politica moneta-
ria espansiva che dovrebbe essere discussa,
quanto eventualmente la sua modalità d’azione
e cioè l’intervento nel mercato secondario dei
titoli con l’obiettivo di ridurre i tassi di interesse
o renderli negativi.
Il problema principale di questa politica è che es-
sa fatica a trasmettere i suoi effetti all’economia rea-
le, nella misura in cui la creazione di liquidità ag-
giuntiva non riesce a determinare un sufficiente
aumento dei consumi e degli investimenti pubblici
e privati, soprattutto in un periodo di forte incertez-
za e senza l’appoggio di politiche fiscali espansive.
Un effetto più diretto sull’economia si avrebbe,
invece, creando liquidità mediante il finanziamento
diretto di programmi pubblici di investimento in
infrastrutture materiali e immateriali e in innova-
zione tecnologica su scala europea. Ciò significhe-
rebbe sostanzialmente il superamento del “tabù del-
la monetizzazione”, ma limitato alla spesa per inve-
stimenti. Ciò rappresenterebbe un modo di creare
un’interazione tra la politica monetaria e quella di
bilancio senza creazione di debito aggiuntivo.
La strategia proposta, se adottata per un periodo
determinato e sotto rigorose condizioni, non
avrebbe nulla a che fare con la aborrita “mutualiz-
zazione dei debiti sovrani”, non essendo da teme-
re, nella fase attuale, un eccesso di inflazione, che
è il motivo che ha determinato in passato la rinun-
cia alla monetizzazione anche parziale dei deficit
pubblici. Neppure essa è assimilabile a qualche
forma di helicopter money.
Inoltre, nei Paesi in cui il gap infrastrutturale ma-
teriale e immateriale è particolarmente elevato, l’as-
sorbimento di liquidità da parte degli investimenti
pubblici, con il conseguente miglioramento delle
dimensioni e della qualità del capitale pubblico, non
avrebbe un effetto di spiazzamento degli investi-
menti privati, che al contrario beneficerebbero di un
miglioramento dei loro rendimenti.
La pratica attuazione della proposta potrebbe
passare attraverso la partecipazione al finanzia-
mento di un budget dell’Eurozona dedicato a soste-
nere investimenti produttivi, di cui si discute da
tempo, senza sostanziali progressi, nei faticosi pro-
cessi decisionali di Bruxelles.
Ministro dell’Economia
e delle finanze del primo Governo Conte
© RIPRODUZIONE RISERVATA
di Giovanni Tria
Primo di una serie di tre articoli