la Repubblica - 22.10.2019

(Brent) #1
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è ancora chi si stupisce del
mesto epilogo di Berlusconi,
suffragetto di Salvini e Meloni
nell’adunata romana; e piange
sulla perduta matrice
“liberale” di un uomo che di
liberale ha sempre avuto zero,
se non nella costruzione retorica del Foglio d i
Giuliano Ferrara, giornale di ottima scrittura e
però cieco e sordo su una delle svolte storiche
del nostro Paese: il berlusconismo, appunto.
I saluti romani ai comizi, l’Uomo della
Provvidenza, le regole come impiccio e come
inganno, il linguaggio spiccio e volgare in
opposizione al “vecchio”: c’era già tutto
venticinque anni fa, quando Salvini
frequentava (inutilmente) il liceo classico. Il
Foglio, all’epoca, lo chiamava il Cav,
affettuoso nomignolo per indicare un
demagogo stramiliardario, di non specchiata
fortuna, che stava riducendo al suo peggio la
destra italiana, levandole quel poco di
liberalismo ereditato dai padri costituenti.
I liberali sono sempre stati antifascisti, e dal
fascismo detestati e bastonati proprio come
oggi vorrebbero fare gli haters salviniani con i
“radical chic”, che è il nome (bugiardo, fuori
contesto) con il quale il nazional-populismo
chiama i borghesi democratici. Come sia stato
possibile elevare quel signore, ai tempi del
suo travolgente successo, al rango di
riformatore liberale incompreso, è un mistero
che non ci riguarda. Riguarda i protagonisti di
quell’imbarazzante abbaglio. Ma insistere
ancora oggi, e dire quanto poco
berlusconiana sia la piazza salviniana (che è
invece identica, ma proprio identica, alle
piazze già viste per il Cav) è veramente
stravagante. C’è qualcosa di terrapiattista nei
post-berlusconiani che si meravigliano di
vedere Berlusconi raccogliere gli applausi,
meritatissimi, della piazza nazional-populista.
La sua piazza.

N


on c’è dubbio, la Brexit sta mandando tutti al manicomio.
Noi britannici dobbiamo ai nostri amici europei le scuse
più sincere, una bottiglia di whisky e dei biglietti omaggio per
l’Amleto della Royal Shakespeare Company. Perché la Gran
Bretagna oggi è proprio Amleto, in preda al dubbio se la Brexit
debba essere o non essere. Comprendo quindi perfettamente il
motivo per cui gli europei come il presidente francese
Emmanuel Macron non vedono l’ora di liberarsi di noi per
portare avanti un’agenda ambiziosa per l’intera Ue.
Eppure vale ancora la pena che l’Europa faccia uno sforzo
ulteriore, nel proprio interesse illuminato e a lungo termine.
In concreto, se il parlamento britannico non approverà
questa settimana il nuovo accordo, l’Ue farebbe bene a offrire
l’estensione dell’articolo 50, come richiesto formalmente
nella lettera che Johnson ha inviato (senza però firmarla, con
mossa infantile) al presidente del Consiglio Europeo, Tusk.
Propongo quattro motivazioni, tutte nell’ottica dell’Ue e
dell’Europa in generale. Innanzitutto il no deal danneggerebbe
enormemente l’Irlanda e altre parti d’Europa geograficamente
prossime al Regno Unito. L’emendamento avanzato dal
conservatore indipendente Oliver Letwin e approvato dal
parlamento sabato è mirato soprattutto a impedire il no deal.
Lo stesso Letwin ha dichiarato che voterà a favore dell’accordo
di Johnson se sarà messo al vaglio del parlamento in forma
giuridica corretta.
In secondo luogo c’è la questione della responsabilità. È
trapelato che i brexiteer duri e puri vicini a Johnson si
preparavano a scaricare su Bruxelles per “folle” intransigenza
la colpa del mancato accordo. Nel caso in cui Macron dovesse
stringere un’alleanza scellerata con Johnson per buttar fuori la
Gran Bretagna il 31 ottobre, la mia fazione nella diatriba sulla
Brexit che indentifico con la sigla 3R (referendum, remain,
riforme) sarebbe costretta ad attribuire parte della colpa ai
partner europei. Per il momento però la Ue ha assunto la
posizione perfetta, mostrando fermezza sufficiente a
difendere gli interessi dell’Irlanda e il mercato unico, ma
anche flessibilità sufficiente a rendere inverosimile un trattato
punitivo, stile Versailles. È importante che mantenga questo
atteggiamento conciliante.
In terzo luogo, sarebbe meglio per il futuro a lungo termine
dell’Europa se la Gran Bretagna restasse nell’Ue. La Brexit non
promette niente di buono, ma il male minore per la Gran
Bretagna è votare per restare nell’Ue in un nuovo referendum.
E la strada migliore è che il parlamento approvi l’accordo di
Johnson col vincolo di un referendum confermativo. Essere o
non essere.
Dato che questo governo è dominato da brexiteer duri e puri e
il nuovo accordo in realtà prevede una hard Brexit per
Inghilterra, Galles e Scozia, e una più soft limitata all’Irlanda
del Nord, nessun leaver potrebbe lamentarsi di essere
costretto a scegliere tra una Brexit moscia (in gergo Brino,
un’uscita solo nominale) e la permanenza nell’Ue. Centinaia di
migliaia di manifestanti si sono radunati sabato davanti al
parlamento a sostegno del referendum. Ma più degli attivisti in
piazza contano i sondaggi, secondo cui ora la maggioranza è
favorevole a restare nell’Ue. Sarebbe proprio assurdo che il

Regno Unito uscisse dall’Unione nel rispetto della “volontà
popolare”, proprio nel momento in cui il popolo ha cambiato
idea. E so che molti amici dell’Europa continentale un tempo
favorevoli a un secondo referendum oggi pensano che l’Ue
starebbe meglio senza di noi. Non starò qui a ripetere tutte le
motivazioni per cui nel lungo periodo l’Ue trarrebbe dei
vantaggi dalla permanenza della Gran Bretagna.
Se la Gran Bretagna esce ora ci vorranno altri cinque anni per
definire il nuovo rapporto economico con l’Ue e capire se la
Scozia lascerà il Regno Unito, e altri cinque per la concreta
attuazione. A quel punto l’Ue e ciò che resta del Regno Unito si
saranno senza dubbio allontanati. La Gran Bretagna starà
economicamente peggio di come avrebbe potuto stare, ma
forse non sarà messa male al punto che gli elettori, gli inglesi
testardi in particolare, scelgano di rientrare, per così dire, con
la coda tra le gambe. Se la Brexit si rivelerà negativa per Londra
è certo che i rapporti oltremanica saranno del tutto
insoddisfacenti e tesi, influenzando negativamente la
cooperazione sui temi di politica estera e sicurezza. Se invece,
contro ogni probabilità, la Brexit avrà effetti positivi sulla
Britannia, i populisti nazionalisti come il premier ungherese
Orbán, l’italiano Salvini e la francese le Pen chiederanno, per
dirla con le immortali parole del film Harry ti presento Sally,
«quello che ha preso la signorina». In entrambi i casi è un male
per l’Ue.
Anche se non accettate questa parte della mia analisi, ho in
mano una quarta argomentazione. Attualmente l’Europa
rappresenta l’ultima speranza di un Occidente fondato su dei
valori, inteso come un insieme di paesi paladini della
democrazia e dello stato di diritto. A fronte della distruzione
della democrazia liberale in atto in paesi membri dell’Ue come
l’Ungheria, si tratta di uno dei compiti più importanti per il
prossimo capitolo della storia dell’Unione, con la nomina dei
nuovi vertici di tutte le istituzioni europee, il Parlamento
europeo appena eletto e il bilancio settennale da approvare.
Tra i leader europei accalcati attorno a Boris Johnson per
congratularsi dopo l’approvazione del suo accordo da parte
del Consiglio europeo la settimana scorsa spiccava il primo
ministro ungherese — Orbán e Johnson sono della stessa razza.
La mossa da scolaretto di Johnson di inviare una fotocopia non
firmata della richiesta ufficiale di rinvio, assieme a un’altra
firmata che invita la Ue a respingere quella stessa istanza,
dimostra il suo disprezzo di una legge approvata dal
parlamento sovrano britannico. Anche se i suoi avvocati
probabilmente garantiscono che la sua condotta non viola la
lettera della norma, senza dubbio ne viola lo spirito.
Per fortuna il sistema di controllo ed equilibrio dei poteri della
democrazia liberale britannica funziona bene. Se questa
vicenda si concluderà con un referendum confermativo, come
personalmente mi auguro, o con nuove elezioni, che accetterei
facendo buon viso a cattivo gioco, si tratterà di un processo
legittimo e democratico. E l’Europa dovrebbe sempre
sostenere i processi legittimi e democratici, anche se
richiedono tempi un po’ più lunghi.
Traduzione di Emilia Benghi

di Graziano Delrio

La vignetta di Biani


C’


ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO

di Michele Serra

L’amaca


Era proprio


nella sua piazza


diTimothy Garton Ash

Il commento


Brexit, l’Ue dia un segnale


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La lettera


Il welfare per l’Italia che nasce


C


aro direttore, nel loro intervento Saraceno e Tamburlini
sottolineano come non sia sufficiente sostenere la
genitorialità attraverso la disponibilità economica ma sia
anche necessario promuovere l’educazione dei figli
attraverso un programma di sviluppo dei nidi. Il valore
pedagogico della scelta educativa va ben oltre la questione
più basilare dell’aiuto alla gestione dei figli e voglio
ringraziarli per avere avviato la discussione.
La legge proposta da noi pone in luce questioni concrete e
può rappresentare una occasione per riflettere sulla vita
delle nostre comunità, a partire dal valore dei nostri figli.
Il valore dell’educazione nei primi anni dell’infanzia è
indiscutibile e non può essere considerato una mera
forma di conciliazione tra vita privata e occupazione dei
genitori. L’esigenza di costruire comunità fin dalla prima
infanzia rende fondamentale il governo pubblico del
sistema educativo anche per favorire relazioni non
segregate per classi sociali tra gruppi di cittadini. Questa
esigenza non significa affatto che solo le scuole delle
amministrazioni pubbliche rispondano a criteri di qualità
educativa ma che è necessario, tramite sistemi di
accreditamento, la garanzia pubblica di questa qualità.
L’ obiettivo della legge delega è dare al nostro Paese una

misura universale di welfare finalmente non solo per l’Italia
che invecchia ma anche per l’Italia che nasce. Le misure
previste sono essenzialmente di due tipi: l’assegno unico che
ha l’obiettivo di sostenere i genitori nelle loro difficoltà
economiche di vario tipo e la dote servizi che ha lo scopo di
sostenere i genitori nell’accesso ai servizi. L’obiettivo è
quello di migliorare e potenziare le misure esistenti per
queste finalità, rendendole più semplici, più continue nel
tempo e capaci di includere anche fasce fragili della
popolazione attualmente escluse. In numerose realtà non
esistono proprio i servizi educativi per la mancanza di
strutture o perché la gestione risulta troppo onerosa per i
Comuni. L’integrazione della dote servizi non può e non
deve essere dunque interpretata come una alternativa ai
servizi educativi per incentivare nel nostro Paese un sistema
diffuso di badantato dei figli, ma, al contrario, come un
contributo per garantire a tutti dignità e pari opportunità di
accesso ai servizi educativi. Servizi e dote si autosostengono
reciprocamente e non si elidono a vicenda.
Occorre continuare a realizzare un grande programma per
l’apertura dei nidi e delle scuole dell’infanzia in tutto il
nostro Paese, a cui certamente la dote servizi potrà
contribuire.

pagina. (^28) Commenti Martedì, 22 ottobre 2019

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