la Repubblica - 20.08.2019

(nextflipdebug5) #1
orse anche per via
dell’afa e dello svacco
estivo (girano in shorts
anche i costituzionalisti),
la crisi di governo
assomiglia molto a una
decomposizione della politica. Non
la politica “come l’abbiamo sempre
conosciuta”, come usiamo dire noi
del Novecento quasi per giustificarci.
No, proprio la politica e basta, quel
parlarsi, mettersi d’accordo oppure
scontrarsi, amarsi oppure odiarsi che
hanno comunque una loro logica
interna (la strategia, la tattica) e una
loro corrispondenza ben leggibile
nella vita sociale, negli interessi
pubblici, nei bisogni di classe.
La sbracatezza dei modi (il
Supercafone che partorisce la crisi a
torso nudo al Papeete per poi
rimangiarsela nella sua cameretta; i
tweet e i fanculo e i “vergogna!” che
hanno preso stabilmente il posto, ma
sul serio, dei lavori parlamentari; i
telegiornali pubblici ridotti a registro
quotidiano di quelle frasette nervose
e sciocche; il partito di maggioranza
relativa, il più importante della
Nazione, che non avendo una sede
conosciuta viene ospitato in pineta
da Beppe, come i trovatelli di don
Gnocchi; eccetera) dice già molto. E
forse dice tutto, perché la forma è
sostanza, e il disprezzo per la forma è
anche disprezzo per la sostanza.
Così l’impressione (invincibile) è che
i quarantenni al potere, a parte
l’ambizione personale, non abbiamo
altra bussola. Darebbe quasi sollievo
sapere che il Salvini è davvero un
fascista in marcia su Roma; si
saprebbe almeno che cosa sta
succedendo, quali contromisure
prendere. Neppure questo ci è
concesso: esce dalla crisi di agosto
come un narciso capriccioso,
disposto a tutto purché non gli levino
la felpa della Polizia. Un non adulto.
Vorrei un governo di soli ventenni,
con qualche ottantenne come tutor.
Tutti gli altri, compresi i miei
coetanei, a casa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

L


a svolta viene dalla Business Roundtable, l’equivalente
della Confindustria negli Stati Uniti. Nella sua
definizione ufficiale della missione d’impresa, abbandona
il principio della massimizzazione del profitto. I chief
executive non devono più avere come unico obiettivo
quello di aumentare il valore di Borsa per gli azionisti. Per
la prima volta il lessico cambia, la ragion d’essere
dell’azienda include obiettivi sociali. Deve servire tutti gli
“stakeholder” cioè coloro che subiscono un impatto dalle
decisioni del management: i lavoratori, i consumatori,
l’ambiente, la società. The Wall Street Journal parla di
“sterzata nella filosofia degli imprenditori”. La firmano
grandi manager come il banchiere Jamie Dimon di JP
Morgan Chase che è presidente dell’associazione. Aderisce
il Gotha del capitalismo americano: dal settore digitale
(Apple) alla finanza (Bank of America, Blackrock), dalla
grande industria (Boeing) alle telecom (AT&T). Sempre il
Wall Street Journal, quotidiano di riferimento per questo
mondo, osserva che si rivolterebbe nella tomba Milton
Friedman, premio Nobel dell’economia che fu il padre del
neoliberismo. Friedman teorizzò che solo il profitto deve
guidare le decisioni aziendali; piegarle a interessi più
generali per lui era peggio di un’eresìa, era l’anticamera del
socialismo. E proprio da qui bisogna partire. Forse non è del
tutto estraneo a questa svolta valoriale il fatto che nella
campagna elettorale americana la parola socialismo è stata
sdoganata. Candidati alla nomination democratica come
Elizabeth Warren e Bernie Sanders la usano senza
imbarazzo. Millennial e Generazione X, che non hanno
ricordi della guerra fredda e dell’Unione sovietica, hanno
opinioni positive sul socialismo, un tempo tabù in America.
Nell’agenda di alcuni candidati figurano misure drastiche
per attenuare le diseguaglianze: tasse patrimoniali, lotta
all’elusione fiscale delle multinazionali, sanzioni antitrust
per smembrare i nuovi monopoli del digitale. I miliardari
illuminati — come Bill Gates, Warren Buffet, George Soros —
da tempo chiedono di pagare più tasse, perché le
diseguaglianze estreme stanno lacerando il tessuto sociale,
rimettono in discussione la tenuta delle liberaldemocrazie.
A questo si aggiunge l’allarme per le conseguenze del
cambiamento climatico. Le grandi aziende hanno smesso

di ascoltare i proclami negazionisti di Donald Trump.
Sanno che il ciclo elettorale può generare oscillazioni
impazzite del pendolo politico ogni quattro anni; mentre il
mondo dell’economia ha bisogno di guardare al lungo
periodo. Si fidano del verdetto della scienza. Vogliono
investire nella lotta al cambiamento climatico come si paga
per una polizza assicurativa: meglio questo, che trovarsi di
fronte ai costi esorbitanti dei disastri ambientali.
Il ravvedimento della Business Roundtable sarà operoso?
Alle promesse seguiranno i fatti? Gli scettici possono
ricordare che questo dibattito avvenne molti decenni fa.
Sostituire gli “shareholder” (azionisti) con gli “stakeholder”
(tutte le parti sociali toccate dalle decisioni d’impresa) è
un’idea che si affaccia all’università californiana di
Stanford negli anni Sessanta, viene rielaborata da Edward
Freeman negli anni Ottanta, infine grazie al sociologo
inglese Anthony Giddens diventa uno dei pilastri della
Terza Via negli anni Novanta: la nuova sinistra di Bill
Clinton, Tony Blair, Gerhard Schroeder, Romano Prodi,
Wim Kok. Quelle promesse furono tradite. La
responsabilità sociale e ambientale venne trasformata in
un’operazione di relazioni pubbliche. Arricchì i
professionisti dei bilanci aziendali in carta patinata, pieni
di chiacchiericcio politically correct. I comportamenti
distruttivi continuavano: a Wall Street sono deflagrati nella
crisi del 2008, in California è cresciuto un capitalismo
digitale predatore. Sull’ambiente c’è stato tanto
greenwashing, operazione che consiste nel “lavare di
verde” l’immagine delle aziende, a parole. Cos’è cambiato
oggi, per sperare che non siamo di fronte a un’ennesima
operazione di relazioni pubbliche? Forse l’Uomo di Davos
(come Samuel Huntington chiamò il Gotha dei top
manager) teme l’ondata dei populismi generati dallo shock
del 2008 — radicalizzazioni di destra e di sinistra — e
avverte una nuova sfida sistemica tra l’Occidente e le
autocrazie orientali. Non basterà la New Age
confindustriale: cambiamenti così radicali nella storia
avvengono quando le élite privilegiate e le classi dirigenti
vi sono costrette da movimenti sociali e nuovi rapporti di
forze.

N


o, non ci sono precedenti ai giorni che stiamo vivendo
né a quelli che li hanno immediatamente preceduti.
Nella storia della Repubblica non ci sono momenti segnati
da un’alleanza così innaturale come quella fra M5S e Lega,
e poi dal suo scomposto implodere. Né si era mai visto un
vicepremier chiedere «pieni poteri» a future urne
mostrando al tempo stesso un colossale disprezzo della
Costituzione e una totale ignoranza istituzionale. Siamo
davvero al Big Bang del sistema politico italiano, come ha
scritto Ezio Mauro, e guardare all’indietro ci fa
comprendere quanto sia profondo il fossato da colmare.
Non troveremmo certo qualche precedente nella storia
della “prima Repubblica” (un dì vituperata e oggi molto
rimpianta), scandita dal confrontarsi e dallo scontrarsi di
solide culture politiche. Aveva radici qui il succedersi delle
sue principali stagioni — centrismo, centrosinistra,
“solidarietà nazionale”, pentapartito-, e questo stesso
succedersi segnalava la tensione fra l’evoluzione e
l’involuzione del nostro sistema politico e della nostra
società. Gli stessi momenti “anomali” ponevano in luce i
momenti di frizione più gravi, e talora drammatici,
all’interno di questo percorso. Si pensi ai tentativi di
impedire l’avvio del centrosinistra (in particolare con il
governo Tambroni, sostenuto dai neofascisti, nel 1960) o di
minarlo poi in profondità: dal “rumor di sciabole” del
generale De Lorenzo nell’estate del 1964 alla “strategia
della tensione” inaugurata cinquant’anni fa dalla strage di
piazza Fontana (e sull’onda di quella torbida pressione il
centrosinistra lasciò per breve tempo il campo a un
centrodestra andreottiano). Solo culture politiche solide
permisero alla Repubblica di resistere ad attacchi
gravissimi e talora “oscuri” (ma spesso chiarissimi nelle
loro radici interne e internazionali). E le permisero di dare
risposte alte alla propria crisi quando, fra il 1992 e il 1994, il
vecchio sistema dei partiti affondò: si ricordino i governi
guidati allora da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi.

È questa storia che oggi è drammaticamente assente, senza
eredi possibili e senza più la capacità di parlare al nostro
presente. Certo, ad essa diede i primi colpi di piccone
l’irrompere del populismo berlusconiano e di una più
generale “destra smoderata” ma i contorni delle differenti e
opposte parti erano comunque riconoscibili. Le “anomalie”
che pur vi furono, anche in questo caso, segnalarono
soprattutto l’incerto avvio della nuova fase (nacque allora il
governo Dini) o il suo declino, con l’assoluta necessità di
portare in salvo un Paese messo a rischio
dall’irresponsabilità del centrodestra
berlusconian-leghista (nacque così il governo Monti).
Venne poi la “non vittoria” bersaniana, con l’incapacità del
centrosinistra di ripensarsi e di rifondarsi. E venne
l’irrompere di un M5S che voleva «aprire il parlamento
come una scatoletta di tonno» e che è stato messo a nudo
nella sua pochezza (“aperto”, se volete) dal primo
demagogo di destra che si è trovato sulla strada.
Uno scenario davvero senza precedenti, e guardare
all’indietro ci fa comprendere quanto sia profondo il
processo di rifondazione del sistema politico e del Paese
che oggi è necessario: in un panorama ancora segnato in
tutta Europa dagli sconvolgimenti indotti dalla crisi
internazionale del 2008 e messo sempre più a rischio da
differenti ma convergenti pulsioni sovraniste e illiberali.
Ha ragione Romano Prodi, per opporsi a derive così gravi e
così inedite sono necessari “congressi” reali, processi reali
di rifondazione della politica. È francamente impensabile
che possa accadere nel mondo a 5 Stelle, e sono flebili le
speranze che possa realmente avvenire in un Pd privo da
tempo di un progetto di futuro. Un Pd che da un lato
annuncia una “Costituente delle idee” sin qui impalpabile e
dall’altro si avvita in antiche e nuove divisioni interne. La
divinità acceca chi vuol mandare in rovina, certo, ma la
rovina oggi riguarda tutti noi.

Le idee


Il rimpianto della politica


F


ILLUSTRAZIONE DI GUIDO SCARABOTTOLO

di Michele Serra

L’amaca


Una proposta


per il governo


di Federico Rampini

Svolta nelle imprese Usa


Se il manager diventa verde


©RIPRODUZIONE RISERVATA

di Guido Crainz

©RIPRODUZIONE RISERVATA

pagina. (^30) Commenti Martedì, 20 agosto 2019

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