Le Scienze - 08.2019

(Ann) #1
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maggior parte dei neuroni nelle braccia invece che nel cervello.
Questo ci ha permesso di passare da un modello centralizzato a
uno distribuito a seconda della complessità del corpo e delle sue
interazioni con l’ambiente.
Con le piante robot cambia la strategia ma non la filosofia, e la si
porta all’estremo: nelle piante un cervello non c’è proprio, ci sono
però milioni di apici nelle radici e nella parte apicale ed è il massi-
mo dell’espressione dell’intelligenza diffusa.

Che cosa cambia con l’intelligenza diffusa rispetto all’intelligenza cen-
tralizzata?
Quella diffusa è una forma di intelligenza più versatile, nella
quale è il corpo a prendere decisioni a seconda di come interagi-
sce con l’ambiente. Con l’intelligenza centralizzata invece è pos-
sibile eseguire molto bene un compito preciso, tuttavia è difficile
che il robot sia capace di compiere più azioni oppure agire in am-
bienti non strutturati: per di più, se lo fosse, il suo costo energeti-
co aumenterebbe.
L’intelligenza diffusa propone un cambio di paradigma, insom-
ma. Ormai in robotica l’idea è passata e i gruppi al lavoro in tutto il
mondo sono tanti, ma c’è ancora tanto lavoro da fare.

Ecco: come funziona il lavoro in biorobotica?
Funziona con il lavoro di figure diverse. Si parte dalla biolo-
gia, ovvero dallo studio del modello biologico: si usa la letteratu-
ra scientifica ma si fanno anche ricerche ad hoc, perché le doman-
de che ci poniamo noi sono spesso diverse da quelle che si pone
un biologo. Noi per esempio ci concentriamo sui materiali o sul-
la biomeccanica. Poi si arriva alla progettazione. A questo punto
c’è chi fa il controllo, chi il design, chi i test. Ma anche questo me-
todo di lavoro ce lo siamo inventati, e probabilmente anche qui c’è
da migliorare.

Persino in questo lei è stata una pioniera.
In un certo senso sì. Ed è una delle cose che trovo affascinanti, e
insieme complesse, del mio lavoro: servono competenze diverse e
serve che si parlino. A volte un linguaggio comune non esiste e va
inventato. Non solo: la didattica è tutta da inventare. Qui non basta
aprire un manuale e studiare, bisogna essere duttili, imparare ad
affrontare la sfida. E c’è un certo margine di rischio. Forse i premi
sono importanti anche per questo, perché consolidano linee di ri-
cerca innovative e ancora «chi lo sa».

Perché parla di rischio?

Perché la robotica soffice non ha ancora prodotto niente che
sia arrivato sul mercato: in fondo, potrebbe avere successo oppu-
re no. Siamo ancora senza standard, senza tendenze. Per adesso ci
sono sviluppi sempre più interessanti in agricoltura e in medici-
na, e ci sono enormi potenzialità: si sta cominciando a parlare, per
esempio, di ibridi di robotica tradizionali e soffici. Ma ripeto: sia-
mo agli inizi.

La sua scommessa allora qual è?
Mi affascina il concetto dei robot che si adattano all’ambiente
perché si porta dietro tante altre sfide tecnologiche e scientifiche.
Per esempio potrebbero diventare robot per le ispezioni ambien-
tali, sotto le macerie di un terremoto, dentro pozzi industriali ma
anche sulla superficie di altri pianeti. E poi, proprio perché puoi
farli crescere, vedo molte connessioni possibili con l’architettura.
Poi c’è la filiera del monitoraggio, dello studio degli ambienti.
Sì, credo che un impiego chiave sarà questo: i robot soffici sa-
ranno per noi soprattutto strumento di conoscenza. E penso
che ce la faremo: prima o poi nasceranno anche corsi di laurea
indirizzati verso la robotica soffice.

È vero che nella robotica (non solo quella bio) gli italiani sono tra i mi-
gliori al mondo?
Certamente sì, sia a livello di ricerca sia con la robotica indu-
striale. Se non siamo i primi al mondo, siamo i secondi. Forse que-
sto dipende dalla nostra lunga tradizione nella meccanica.

E lei in quel mondo, con la sua laurea in biologia, non è un’anomalia?
Di nuovo, sì! Però già in tesi ho lavorato con i fisici, perché ho
fatto una tesi di biofisica, poi ho preso un dottorato in ingegneria,
e mi sono trovata tra gli ingegneri. È andata così.

Mentre non è anomalo il fatto che sia donna.
No, nel nostro settore siamo praticamente 50 e 50. Semmai è
tutto il settore a essere anomalo rispetto al resto dell’ingegneria!
Perché nella robotica tradizionale i maschi sono decisamente di
più. Tuttavia, da noi come nell’ingegneria biomedica le donne so-
no la metà.
Mi sono chiesta più volte il perché. Può darsi che sia perché la
parte biologica, così come quella medica, ci attira di più. Per quan-
to mi riguarda, non credo di ricevere più curriculum da parte di
donne o di prediligere le donne al momento della scelta. Secondo
me è proprio il nostro settore che, come ha attirato me, attira sem-

Cortesia Barbara Mazzolai/Istituto italiano di tecnologia ( pre più studentesse.

tutte le foto, 2

)

di Silvia Bencivelli

È laureata in biologia marina e ha conseguito un
dottorato in ingegneria dei microsistemi. Dal 2012
al 2015 è stata coordinatrice del progetto europeo
FET-Open Plantoid nel cui ambito ha realizzato
il primo robot al mondo ispirato alle radici delle

piante per il monitoraggio del suolo.
Da gennaio 2019 è coordinatrice di un nuovo
progetto europeo FET-Proactive, denominato
GrowBot, che prevede la realizzazione di
tecnologie e robot ispirati alle piante rampicanti.

È direttrice del Centro di micro-biorobotica a
Pontedera dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT)
di Genova ed è stata vice direttore con delega al
funzionamento dei centri della rete IIT da luglio
2012 a luglio 2017.

CHI È

BARBARA MAZZOLAI
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