Le Scienze - 08.2019

(Ann) #1

62 Le Scienze 6 12 agosto 2019


Facciamo un esempio: la prima volta il contagio avviene con
il virus chiamato DENV-1. Gli anticorpi contro quel virus posso-
no restare nel sangue per decenni, anche per tutta la vita. Quan-
do avviene un secondo contagio con un altro virus della dengue,
per esempio DENV-2, 3 o 4, paradossalmente gli anticorpi contro
DENV-1 potrebbero accelerare la replicazione del nuovo virus nel-
le cellule infette, affrettando un attacco potenzialmente letale.
Il meccanismo ADE, in seguito ulteriormente chiarito da Hal-
stead e da altri ricercatori, funziona così: un virus della dengue è
una stringa di acido ribonucleico chiusa in una capsula proteica
che presenta una serie di protuberanze caratteristiche sulla super-
ficie. Durante il primo contagio di dengue, i linfociti B del sistema
immunitario producono un anticorpo chiamato immunoglobuli-
na G, o IgG, che si attacca a una o più protuberanze. Dopo essersi
attaccati ai virus, gli anticorpi possono consegnarlo a certe cellule
del sistema immunitario, come i macrofagi. Il suffisso «-fagi» deri-
va dalla parola greca che significa «mangiare»: i macrofagi sono let-
teralmente i «grandi mangiatori», inglobano il virus e lo digerisco-
no tramite enzimi. Così, quando il virus della dengue è legato agli
anticorpi, normalmente è intrappolato e distrutto nei macrofagi.
Quando l’infezione finisce, alcuni linfociti B produttori di an-
ticorpi restano dormienti. Se si verifica un secondo contagio con
un altro virus della dengue, si risvegliano e pro-
ducono gli stessi anticorpi della prima volta. Hal-
stead ipotizzò che alcuni di questi anticorpi pos-
sano comunque attaccarsi alla superficie dei virus
sconosciuti, ma spesso non ne bloccano le protu-
beranze più letali, che potremmo chiamare le lo-
ro armi. Gli anticorpi consegnano gli intrusi ai ma-
crofagi, ma senza averli disinnescati. Ciò permette
al virus di bloccare il sistema di difesa del macrofa-
go e di prendere il controllo della cellula, di cui poi
usa le risorse per replicare se stesso in tante copie.
Con l’aiuto involontario degli anticorpi, la nuova
varietà di dengue si riproduce, producendo 1000
volte più copie di quanto farebbe da sola.
Halstead ricorda che quando ipotizzò l’ADE le reazioni dei
colleghi furono un misto di indifferenza e incredulità. Oggi, a
89 anni, è professore a contratto presso la Uniformed Services
University of the Health Sciences a Bethesda, nel Maryland, dove
continua a portare avanti la sua posizione. Molti esperti di dengue
lo descrivono come il padrino dell’ADE. «All’epoca credevo di aver
fatto una scoperta molto importante – racconta – ma nessuno vo-
leva credere che l’ADE esistesse davvero».
Più di quarant’anni dopo Eva Harris, un’esperta di dengue
dell’Università della California a Berkeley, ha trovato prove che l’A-
DE non solo esiste, ma contribuisce ad attacchi di dengue in forma
grave nei bambini. Harris non aveva intenzione di dimostrare né di
smentire l’esistenza di questo meccanismo: inizialmente era scet-
tica al riguardo e non aveva particolarmente voglia di invischiarsi
in un dibattito pluridecennale. Il suo gruppo, che usava anche mo-
delli statistici elaborati da Leah Katzelnick, studiava come la den-
gue colpisce i bambini. Per portare avanti lo studio i ricercatori
hanno contribuito all’installazione di un laboratorio in Nicaragua e
hanno iniziato un progetto scientifico dei più difficili: uno studio di
coorte a lungo termine su pazienti in età pediatrica. A Managua, la
capitale del Nicaragua, Harris e colleghi avevano il compito non fa-
cile di seguire migliaia di bambini.
Per più di 15 anni gli scienziati che collaboravano al Nicara-
guan Pediatric Dengue Cohort Study hanno curato i bambini am-

parte dei soggetti inoculati. Al contrario, alcuni esperti sostengo-
no, come Dans e Dans avevano già fatto, che Dengvaxia imitereb-
be un incontro precedente con la dengue, il che può portare il cor-
po a rispondere in modo pericoloso a un secondo contagio.
La controversia non ha rallentato il lancio di Dengvaxia, che at-
tualmente è approvato in più di 20 paesi. Nell’ottobre 2018 la Food
and Drug Administration statunitense ha annunciato che avrebbe
accelerato la procedura di esame per la richiesta di Sanofi Pasteur
per l’approvazione di Dengvaxia. Ciò significa che il vaccino po-
trebbe essere approvato negli Stati Uniti per l’uso in zone dove la
dengue è endemica, come Portorico, prima che le Filippine abbia-
no completato l’inchiesta sulle morti dei bambini vaccinati e pri-
ma che Sanofi Pasteur abbia pubblicato la relazione finale sui sei
anni di sperimentazione clinica.


Una malattia sconcertante


Per la maggior parte dei virus, come il morbillo, il secondo at-
tacco, nei rari casi in cui si verifica, è molto più leggero rispetto al
primo. Con la dengue, invece, il secondo attacco ha molte più pro-
babilità di essere letale. Scienziati e medici hanno faticato per an-
ni per capirne i motivi. Negli anni cinquanta e sessanta, quando in
Asia iniziarono a insorgere epidemie di dengue in forma grave, si
erano chiesti se non si trattasse di un’infezione del
tutto nuova. La dengue che conoscevano costrin-
geva i pazienti a letto e li lasciava affaticati, mentre
questa nuova manifestazione li mandava all’ospe-
dale o all’obitorio. C’era stata una mutazione del
virus? Oppure era colpa del sistema immunitario?
Tra coloro che cercavano una risposta c’era un
giovane ricercatore appena uscito dalla facoltà di
medicina. Scott B. Halstead iniziò a studiare i vi-
rus trasmessi dalle zanzare nel 1957, quando la-
vorava per l’esercito statunitense in Giappone, e
affrontò la sua prima grande epidemia di dengue
quattro anni più tardi, quando era di stanza in un
laboratorio militare adiacente all’Ospedale pedia-
trico di Bangkok. I medici pensavano che i ragazzi portati all’ospe-
dale fossero stati avvelenati; ne moriva quasi uno su quattro. Con
il gruppo di ricerca che guidava, Halstead identificò la dengue co-
me causa dell’epidemia. In seguito avrebbe fatto un’altra scoper-
ta ancora più sconcertante: i bambini infettati dalla dengue per la
seconda volta (con un virus diverso ogni volta) e i neonati di madri
immuni a questa malattia erano maggiormente a rischio di den-
gue grave e morte. Nessuno capiva perché.
Nel 1964 R.A. Hawkes, all’epoca ricercatore all’Australian
National University di Canberra, scoprì che nelle colture cellula-
ri i virus dell’encefalite di Murray Valley, della febbre West Nile
e dell’encefalite giapponese e il virus getah infettavano più cellu-
le quando erano mescolati ad anticorpi che quando erano da so-
li. Hawkes ipotizzò che gli anticorpi rendessero più stabile il virus
e ne aumentassero la capacità di attaccarsi alle cellule. Halstead si
chiedeva se stesse succedendo lo stesso con la dengue.
Per capire perché fossero necessari due contagi diversi di den-
gue per rendere letale il secondo, Halstead infettò 118 scimmie con
diverse combinazioni dei quattro virus della dengue e poi misu-
rò la quantità di virus che avevano nel sangue. Pubblicò i risulta-
ti nel 1973: alcune scimmie, che erano state infettate una seconda
volta e con un virus diverso, presentavano cariche virali molto più
alte. Quattro anni più tardi propose una possibile spiegazione, che
chiamò potenziamento dipendente dall’anticorpo.


Per la maggior

parte dei virus il

secondo attacco,

nei rari casi in

cui si verifica,

è molto più

leggero rispetto

al primo
Free download pdf