Internazionale - 28.02.2020

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Economia


gnificativo, soprattutto dopo che la classe
operaia industriale si è ridotta e i sindaca-
ti sono stati ridimensionati. Dalla fine del
novecento, la quota del reddito da capita-
le rispetto al reddito totale sta aumentan-
do: vuol dire che una fetta sempre più
consistente del pil proviene dai profitti
realizzati dalle grandi aziende e da chi è
già ricco. Questa tendenza è piuttosto evi-
dente negli Stati Uniti, ma ricorre nella
maggior parte degli altri paesi, in quelli in
via di sviluppo come in quelli industrializ-
zati. Se la quota del reddito da capitale
cresce significa che il capitale e i capitali-
sti stanno diventando più importanti del
lavoro e dei lavoratori, e quindi acquisi-
scono più potere economico e politico. E
significa anche che aumenta la disugua-
glianza, perché quelli che traggono una
grande parte del proprio reddito dal capi-
tale di solito sono ricchi.


Malessere occidentale
Se il sistema attuale ha prodotto un’élite
più varia (in termini sia di genere sia di ap-
partenenza etnica), i meccanismi del ca-
pitalismo liberale hanno inasprito la disu-
guaglianza, spesso mascherata dietro il
velo del merito. Rispetto ai loro predeces-
sori nell’età dell’oro, oggi i ricchi possono
più plausibilmente affermare che la loro
posizione deriva dall’etica del lavoro, di-
menticandosi dei vantaggi acquisiti da un
sistema e da tendenze sociali che rendo-
no la mobilità economica sempre più dif-
ficile. Negli ultimi quarant’anni abbiamo
assistito all’affermazione di una classe
privilegiata quasi inamovibile che è sem-
pre più isolata dal resto della società. Ne-
gli Stati Uniti il dieci per cento più ricco
della popolazione possiede più del novan-
ta per cento dei patrimoni finanziari. Chi
fa parte delle classi dominanti ha un alto
livello d’istruzione, generalmente lavora
e ha stipendi mediamente alti. Di conse-
guenza, tende anche a credere di merita-
re il proprio status.
Le persone che appartengono all’élite
investono fortemente nei loro discenden-
ti e nel consolidamento del controllo poli-
tico. Puntando sull’istruzione dei figli,
permettono alle generazioni future di
mantenere un reddito da lavoro elevato e
uno status tradizionalmente associato al-
la conoscenza e all’istruzione. Investendo
nell’influenza politica (elezioni, universi-
tà, centri di studio sulla politica e l’econo-
mia) si assicurano di controllare i mecca-
nismi che regolano le successioni, in mo-
do che il capitale finanziario possa essere
facilmente trasferito alla generazione


successiva. Questi due fattori messi insie-
me (istruzione acquisita e capitale tra-
smesso) aiutano la classe dirigente a
mantenere i propri vantaggi.
La formazione di una classe dirigente
permanente è possibile solo se quella clas-
se esercita il controllo politico. In passato
succedeva in modo naturale: la classe po-
litica era per lo più un’emanazione dei ric-
chi, e quindi c’era una certa comunanza di
opinioni e interessi tra i politici e il resto
dei ricchi. Oggi non è più così: i politici
provengono da classi e contesti sociali di-
versi e spesso hanno poco in comune, se
non nulla, con i ricchi. Bill Clinton e Ba-

rack Obama negli Stati Uniti, Margaret
Thatcher e John Major nel Regno Unito
provenivano tutti da contesti modesti, ma
sostennero in modo piuttosto efficace gli
interessi dell’uno per cento.
Nelle democrazie moderne i ricchi
usano i contributi alla politica, ai centri di
studio e ai mezzi d’informazione per
“comprare” misure economiche favore-
voli: meno tasse sui redditi alti,
più detrazioni fiscali, plusvalen-
ze più alte grazie agli sgravi fi-
scali alle imprese, meno regola-
mentazioni del settore finanzia-
rio. Queste misure, a loro volta,
aumentano la probabilità che i ricchi ri-
mangano in cima alla piramide e sono
l’anello finale di una catena che parte
dall’aumento della quota del capitale sul
reddito nazionale netto e finisce con la
formazione di una classe dirigente che
perpetua continuamente il suo potere.
Anche se la classe dirigente non provasse
a tirare dalla sua parte la politica, avrebbe
comunque un grande vantaggio; quando
le élite investono nelle campagne eletto-
rali e costruiscono le proprie istituzioni
all’interno della società civile, il loro sta-
tus diventa quasi inattaccabile.
Le élite dei sistemi capitalistici libera-
li si isolano, e il risentimento del resto del-
la società cresce. Il malessere che oggi
attraversa i paesi occidentali è in gran
parte dovuto al divario tra le élite ristrette
e le masse, che hanno avuto pochi benefi-
ci dalla globalizzazione e che considera-
no il commercio globale e l’immigrazione
la causa dei loro mali. Questa situazione

somiglia a quella vissuta negli anni set-
tanta dai paesi in via di sviluppo – come
Brasile, Nigeria e Turchia – chiamata “di-
sarticolazione” sociale. Mentre la bor-
ghesia era pienamente inserita nel siste-
ma economico globale, gran parte
dell’entroterra rimaneva indietro. La ma-
lattia che sembrava riguardare solo i pae-
si in via di sviluppo comincia a colpire
anche il nord del mondo.

Il modello cinese
In Asia la globalizzazione ha tutt’altra re-
putazione: secondo i sondaggi, in Viet-
nam il 91 per cento della popolazione la
considera una forza positiva. Paradossal-
mente, in paesi come la Cina e il Vietnam
è stato il comunismo a gettare le basi per
la futura trasformazione capitalista. Il
Partito comunista cinese salì al potere
nel 1949 mettendo in atto una rivoluzio-
ne nazionalista (contro il dominio stra-
niero) e sociale (contro il feudalesimo)
che permise all’élite politica di spazzare
via le ideologie e i costumi che riteneva
fossero d’intralcio allo sviluppo econo-
mico o creassero divisioni artificiali tra le
classi (per contro, la lotta per l’indipen-
denza dell’India, molto meno radicale,
non è mai riuscita a eliminare il sistema
delle caste). Nel lungo periodo queste
due rivoluzioni simultanee sono state un
prerequisito per la formazione
di una classe capitalista locale
che si è messa sulle spalle l’eco-
nomia del paese. Le rivoluzioni
comuniste in Cina e in Vietnam
hanno avuto la stessa funzione
dell’ascesa della borghesia nell’Europa
dell’ottocento.
In Cina il passaggio da un sistema qua-
si feudale al capitalismo è avvenuto in
tempi brevissimi, sotto il controllo di uno
stato estremamente forte. In Europa, do-
ve le strutture feudali sono state sradicate
lentamente nel corso dei secoli, lo stato
ha avuto un ruolo molto meno importante
nella transizione verso il capitalismo. Da-
te le premesse storiche, quindi, non sor-
prende che in Cina, in Vietnam e in altri
paesi della regione il capitalismo abbia
avuto spesso un carattere autoritario.
Il sistema del capitalismo politico ha
tre caratteristiche distintive. Primo, lo
stato è gestito da una burocrazia tecno-
cratica la cui legittimità è legata alla cre-
scita economica. Secondo, anche se lo
stato ha delle leggi, queste sono applicate
in modo arbitrario, a vantaggio delle élite,
che possono non rispettarle quando le ri-
tengono poco convenienti o farle rispetta-

Le élite dei sistemi


capitalistici liberali si
isolano, e nella società

il risentimento cresce

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