Internazionale - 28.02.2020

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re per punire gli avversari. L’arbitrarietà
dello stato di diritto in queste società si
lega alla terza caratteristica distintiva del
capitalismo politico: l’autonomia dello
stato. Affinché lo stato agisca in modo de-
ciso deve essere libero da vincoli giuridi-
ci. La tensione tra il primo e il secondo
principio – tra una burocrazia tecnocrati-
ca e un’applicazione discrezionale della
legge – genera la corruzione, che non è
un’anomalia ma è parte integrante del
modo in cui è strutturato il capitalismo a
guida statale.
Dalla fine della guerra fredda, questi
fattori hanno contribuito a far crescere le
economie dei paesi comunisti, o sedicen-
ti tali, in Asia. Tra il 1990 e il 2017 il tasso
di crescita della Cina è stato in media di
circa l’8 per cento del pil e quello del Viet-
nam del 6 per cento, contro appena il 2 per
cento negli Stati Uniti.
Il rovescio della medaglia della straor-
dinaria crescita della Cina è un gigante-
sco aumento della disuguaglianza. Dal
1985 al 2010 il coefficiente di Gini della
Cina è balzato da 0,30 a circa 0,50, più al-
to di quello degli Stati Uniti e vicino ai li-
velli dei paesi dell’America Latina. La di-
suguaglianza è cresciuta notevolmente
sia nelle aree rurali sia in quelle urbane.

Questa dinamica si manifesta a tutti i li-
velli: tra province ricche e povere, tra lavo-
ratori molto o poco qualificati, tra uomini
e donne, tra settore privato e pubblico.
In particolare, c’è stato anche un au-
mento della quota del reddito da capitale
privato, che sembra essere concentrato in
modo simile alle economie di mercato
avanzate occidentali. In Cina è nata una
nuova élite capitalista. Nel 1988 gli operai
industriali qualificati e non qualificati, gli
impiegati e i funzionari pubblici rappre-
sentavano l’80 per cento nella fascia di
reddito più alta ( 5 per cento dei percettori
totali). Nel 2013 la loro quota è scesa di
quasi la metà mentre sono diventati do-
minanti gli imprenditori (20 per cento) e i
professionisti (33 per cento).
Una caratteristica importante della
nuova classe capitalista cinese è che viene
dalla terra, per così dire: quattro capitali-
sti cinesi su cinque dicono di avere avuto
padri che facevano gli agricoltori o i brac-
cianti. Questa mobilità intergeneraziona-
le non sorprende, vista la cancellazione
quasi totale della classe capitalista dopo la
vittoria dei comunisti nel 1949 e poi anco-
ra durante la rivoluzione culturale degli
anni sessanta. Ma potrebbe non verificar-
si più in futuro, perché la concentrazione

della proprietà del capitale, i costi cre-
scenti dell’istruzione e l’importanza dei
legami familiari creeranno dei meccani-
smi di trasmissione della ricchezza e del
potere simili a quelli dell’occidente.
Tuttavia, le tante e variegate forme di
proprietà in Cina – dove a livello locale e
nazionale i confini tra pubblico e privato
spesso si confondono – permettono all’éli-
te politica di tenere a freno il potere della
nuova élite capitalista ed economica.
Per millenni la Cina ha avuto uno stato
forte e centralizzato che ha sempre impe-
dito alla classe mercantile di diventare un
centro di potere indipendente. Secondo
lo storico francese Jacques Gernet, duran-
te la dinastia Song, intorno al duecento, i
mercanti ricchi non riuscirono mai a di-
ventare una classe con interessi condivisi
perché lo stato era sempre in agguato,
pronto a limitare il loro potere. Pur conti-
nuando a prosperare singolarmente (co-
me i nuovi capitalisti in gran parte della
Cina di oggi), i mercanti non furono in
grado di creare una classe coerente con
un programma politico ed economico e
capace di tutelare e sostenere i suoi inte-
ressi. Questo scenario, secondo Gernet,
era molto diverso da quello che nello stes-
so periodo si creava nelle repubbliche

MAPS


Dalla serie The Pearl River. Macao, Cina, 2019
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