Vanity Fair Italia 20170208

(Romina) #1

(^84) I VANITY FAIR 08.02.2017
L’ America, vista da Tijuana, è solo terra
brulla e pali alti per fare luce e vedere che nessuno abbia tanta forza
nelle mani e nella testa per scavalcare la cancellata che dalle onde
dell’Oceano sale fino alle montagne: il muro del presidente Trump
qui, come in altri 1.050 chilometri di confine, c’è già.
Non importa quanto arido e desolato sia questo orlo di Ameri-
ca: la storia di chi sta di qua è quasi sempre il racconto di un desi-
derio, di un tentativo, di un successo o di un insuccesso di anda-
re dall’altra parte: se Tijuana fosse un vento, spirerebbe teso e co-
stante attraverso le sbarre, direzione San Diego.
Dall’altra parte ci si può andare in macchina, attraverso San Ysi-
dro, il punto di confine più trafficato del mondo, oppure a piedi,
attraverso un lungo ponte sospeso: sette, otto minuti di cammino
che, quando c’è gente o quando i poliziotti americani dell’immi-
grazione diventano particolarmente pignoli, diventano ore. Tre,
quattro, chi lo sa. In entrambi i casi bisogna avere un titolo per en-
trare, il che, sostanzialmente, significa essere cittadini americani o
avere un visto, che ai messicani non danno quasi mai. E allora ci
sono gli altri modi per andare di là, modi che a seconda di chi te
li racconta sembrano facili oppure impossibili. Ci sono strade nel
deserto, tunnel sotto la terra, e per ognuno dei diecimila che – da-
gli anni Novanta – sono morti tentando di cruzar, attraversare, ce
ne sono almeno 600 che ce l’hanno fatta. Nel 2014 c’erano circa 6
milioni di illegali messicani in America. Gente che lavora, paga le
tasse e mangia il tacchino il giorno del Ringraziamento.
T
ijuana, vista dal Col Libertad mentre ancora sta dormendo,
è bellissima. Quando lo dico a Yemilet, lei stira gli angoli
della bocca per pura cortesia: ho fatto un complimento a un
posto che le è straniero, e anche se sul Col Libertad lei ci abita, mi
lascia intendere di non aver mai prestato attenzione al panorama
che ogni mattina le si srotola davanti. Yemilet esce sempre con il
buio e con il buio ritorna a casa. Si sveglia alle 4 del mattino, con-
trolla il gruppo di Facebook dove chi passa la frontiera scrive com’è
la situazione e, a seconda di quello che legge, dorme ancora un po’,
oppure si alza. Quando proprio non riesce a mettersi in piedi subito,
ci va sua mamma, Ixchel, a tenerle il posto nella fila.
La prima volta che ha passato il confine Yemilet era proprio nel-
la pancia di Ixchel che allora aveva 16 anni, era incinta di 9 mesi e
sapeva di non poter avere paura di niente – il freddo, i serpenti, le
pattuglie sul confine di Sonora –, doveva solo camminare e parto-
rire sua figlia di là, farne una cittadina americana.
Ce l’ha fatta: i coyote, trafficanti di persone, l’hanno messa su un
pullman Greyhound e Yemilet è nata a Chicago, e lì ha vissuto con
sua madre e sua sorella Angela fino al 2015 quando Ixchel, dopo
16 anni di vita da illegale ma anche – paradossalmente – da perfet-
ta americana, è stata coinvolta in una vicenda di litigi famigliari, ac-
cusata, e in una settimana espulsa dal Paese. Che avesse due figlie
minorenni, cittadine americane, che vivevano sole con lei – il padre
era scomparso poco dopo la nascita di Angela, la seconda – non ha
fatto nessuna differenza. Le ragazzine si sono trasferite da una zia,
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ma dopo poco Yemilet ha deciso di raggiungere la mamma a Tijua-
na: «Sono cresciuta senza un padre, non potevo accettare di vivere
anche senza mia mamma». Lei e la sorella Angela ne hanno parla-
to molto, una ha deciso di partire, l’altra di restare. «Sono felice che
Yemilet sia venuta a vivere con me, ma capisco anche la decisione
di Angela di non farlo», dice Ixchel.
Yemilet ha preteso solo una cosa: continuare a frequentare la scuo-
la americana. Sui moduli d’iscrizione della E3 Civic High School di
San Diego è stato messo l’indirizzo della signora Maria Galleta, at-
tivista per i diritti degli immigrati con sportello a Tijuana, ma anche
cittadina statunitense al cui domicilio di San Diego figurano vivere
6 ragazzi in età scolare, figli di madri deportate: tutti si svegliano la
mattina in Messico e vanno a lezione negli Stati Uniti.
Gli studenti che quotidianamente passano il confine sono tantissi-
mi e di ogni età: sopra i 12 anni li lasciano passare senza dire niente,
per i più piccoli richiedono che ci sia qualcuno ad accompagnarli.
Tra i deportados circola la leggenda di un ragazzino di 10 anni che,
fermato all’Immigration americana, si è sentito chiedere perché
facesse avanti e indietro senza nessuno: «Perché avete deportato
mia madre. Volevate che vivessi da solo alla mia età?».
Alla scuola di Yemilet pochissimi sanno del suo lungo viaggio
quotidiano: un paio di compagne, un’insegnante molto compren-
siva che a un certo punto le ha chiesto perché qualche volta faces-
se tardi alla prima ora. Se tutto funziona – il taxi che la porta al
confine arriva subito, non c’è coda all’Immigration e il trolley, il
tram che va da San Ysidro a San Diego, non le parte sotto il naso



  • ci mette un’ora e tre quarti, «ma qualche volta ci vogliono anche
    5 ore, e arrivo tardi per forza».
    Non vuole che i compagni e i professori sappiano, un po’ per non
    avere guai con il preside, molto perché quel Paese a cui torna ogni
    sera dopo le lezioni non le appartiene e non parla di lei. «Potreb-
    be avere la doppia cittadinanza, americana e messicana. Ma quel-
    la messicana non la vuole», mi dice sua madre. «Ma la capisco.
    A casa mangiamo pancake, festeggiamo il 4 luglio, io soltanto da
    poco ho ricominciato a sognare in spagnolo, mia figlia, invece,
    non lo fa mai».


L’OCEANO SPACCATO
Il «muro» di Tijuana è una
cancellata che entra fin
nell’Oceano Pacifico.
Nell’altra pagina, Ixchel, 33
anni, e sotto la figlia Yemilet,
17, sul tram che la porta ogni
giorno a San Diego. A
sinistra, la frontiera pedonale
fra Tijuana e San Ysidro.

«ANGELA È VENUTA A NATALE, HA DISSEMINATO LA CASA


DI BIGLIETTINI. IXCHEL PIANGE QUANDO NE TROVA UNO:


“MAMMA, TI STO PENSANDO”»


28/01/17 10:09
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