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el 2011, il film All that I love – Tutto
ciò che amo di Jacek Borcuch fu scel-
to per rappresentare la Polonia agli
Oscar nella categoria miglior film
straniero. Non riuscì a vincere il
premio, ma la storia – sull’amore e
la musica rock nella Polonia comunista degli anni
ottanta – ebbe un notevole successo di pubblico.
Già prima della nomination, il film era uscito in mol-
ti paesi dell’Europa occidentale. E in occasione di
una delle prime proiezioni, gli spettatori rivolsero
una serie di domande piuttosto bizzarre al regista, il
quale si rese conto che il pubblico, an-
che se era ben disposto, aveva erronea-
mente creduto che l’azione si svolgesse
nella Polonia del 2011.
Per Borcuch fu uno shock. La rico-
struzione sullo schermo della vita nella
Repubblica Popolare di Polonia di
trent’anni prima si era rivelata una gros-
sa sfida logistica: trovare le location, gli
interni e gli oggetti di scena giusti era
stato tutt’altro che facile. Eppure, ricor-
dò in seguito il regista, almeno una par-
te degli spettatori – quelli occidentali –
aveva avuto la falsa impressione che il suo film sulla
Polonia comunista descrivesse la vita nel 2011. Dopo
questo episodio, all’inizio del film fu inserito un fer-
mo immagine che indicava “1981”.
È una vicenda che risale a molti anni fa, ma rima-
ne interessante perché il pubblico dei film d’essai
stranieri tende a essere piuttosto esigente e bene in-
formato. È difficile non pensare che l’esperienza di
Borcuch rivelasse qualcosa d’importante. Il modo in
cui l’occidente immagina l’Europa centrorientale è
cambiato ben poco, malgrado le trasformazioni poli-
tiche e il passare degli anni. Gli esperti di relazioni
internazionali o gli intellettuali di fama planetaria
potrebbero dissentire, ma quello che m’interessa è
come le due metà dell’Europa s’immaginano reci-
procamente nella vita quotidiana. Perché queste per-
cezioni, in ultima analisi, incidono sulla politica.
A circa un anno dall’uscita del film di Borcuch
nell’Unione europea, è arrivata la crisi dei migranti
del 2015. I paesi del gruppo di Visegrád – Polonia, Re-
pubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria – hanno dimo-
strato una forte resistenza all’idea stessa della ridi-
stribuzione dei migranti, suscitando un misto di con-
fusione e turbamento in occidente. I commentatori
hanno scritto di una “nuova cortina di ferro”. Molte
delle tensioni politiche che si avvertivano sono state
spiegate con un modello che risaliva agli ultimi anni
del comunismo e agli inizi della transizione.
Certe persone si sono risentite con i paesi dell’Eu-
ropa centrale che avevano preso una posizione politi-
ca che non era allineata con la loro. Altri sono stati
colti di sorpresa dal linguaggio usato dai politici in
risposta alla crisi, spesso lontano dagli standard di-
plomatici. Altri ancora sono rimasti sgomenti davan-
ti al profondo abisso che si era spalancato lacerando
la solidarietà europea. Ben presto si è cominciato a
dire che nei paesi postcomunisti la mo-
dernizzazione era stata superficiale e la
gente stava tornando “alle vecchie abi-
tudini”, un’espressione che non era
definita chiaramente.
È un’opinione che non condivido.
Mi sembra che molte divergenze che
vediamo nell’Europa di oggi discenda-
no da descrizioni fuorvianti. Sostan-
zialmente, la gente non si è accorta che
già da qualche anno all’orizzonte si sta
profilando qualcosa di assolutamente
nuovo. In trent’anni di postcomuni-
smo, i cittadini dei paesi del gruppo di Visegrád non
sono mai stati così vicini o simili agli europei occi-
dentali per quanto riguarda le condizioni materiali o
il funzionamento delle istituzioni statali. Eppure non
c’è dubbio che negli ultimi anni è cambiato qualcosa
d’importante: semplicemente, in questi paesi il mito
post comunista dell’occidente ha perso la sua forza
persuasiva. Di conseguenza, all’interno dell’Unione
europea ci siamo ritrovati ad affrontare sfide politi-
che completamente nuove.
Dai tempi delle rivoluzioni del 1989, nell’Europa
dell’est ha prevalso un’ammirazione ingenua e acriti-
ca per i paesi a ovest dell’Elba e per gli Stati Uniti. La
Polonia è un ottimo esempio di questa mentalità. Il
primo premier postcomunista della terza repubblica
polacca, Tadeusz Mazowiecki, nell’agosto 1989 di-
chiarò alla camera bassa del parlamento: “Sono certo
che la Polonia può svolgere un ruolo importante nella
vita politica, economica e culturale dell’Europa. Ma
la situazione economica particolarmente difficile del
nostro paese non incoraggia l’ottimismo. E questo è
vero anche nel campo delle relazioni internazionali.
Il divario di civiltà tra la Polonia e le società dei paesi
avanzati sta aumentando”.
Est, ovest e l’Europa senza miti
Jarosław Kuisz
Negli ultimi anni è
cambiato qualcosa
d’importante:
semplicemente, nei
paesi dell’Europa
centrorientale il
mito postcomunista
dell’occidente ha
perso la sua forza
persuasiva
JAROSŁAW KUISZ
è uno storico polacco.
Ha fondato e dirige il
settimanale politico e
culturale online
Kultura Liberalna.
Questo articolo
è uscito su Eurozine
con il titolo The two
faces of European
disillusionment.
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