L\'Espresso - 20.10.2019

(Steven Felgate) #1
L’invasione turca / Il fronte interno

schierati con tanto di saluto militare a ianco dell’esercito
turco - per preparare e far digerire ai turchi impoveriti dalla
violenta crisi economica in corso questa costosa e sanguina-
ria guerra contro i “terroristi” curdi, ha messo a tacere il fron-
te dell’opposizione. L’unico parlamentare del Chp che ha osa-
to via social esprimere la propria contrarietá alla “Fonte di
pace” oferta dai soldati turchi alla popolazione curda nel
nord est della Siria, è stato prontamente messo sotto inchie-
sta. Solo a metá settimana, ovvero a 7 giorni dall’inizio dell’o-
perazione militare turca, il leader dei repubblicani, il parla-
mentare Kemal Kılıçdaroglu, ha osato afermare pubblica-
mente che «se non si rispetta l’integrità territoriale di un altro
governo, si viene visti all’estero come nemici. Oggi abbiamo
reso tutto il mondo nostro nemico». Kılıçdaroglu ha anche
accusato il governo «di sostenere i combattenti jihadisti pre-


senti in Siria che tutto il mondo considera terroristi. I terrori-
sti islamici che sono stati feriti sono stati portati in Turchia
per essere curati segretamente e, una vomta guariti, sono
tornati nuovamente in Siria». Resta il fatto che l’Alleanza po-
co può fare se non vuole correre il rischio di essere bollata
tout court di anti patriottismo. Nel frattempo la magistratura
agli ordini del Sultano, mercoledì scorso ha spiccato un nuo-
vo mandato di arresto a carico di 125 cittadini turchi. L’accusa
è di aver fatto propaganda a favore dell’organizzazione terro-
ristica curda siriana Ypg difondendo post via internet con
notizie false per istigare all’odio nei confronti del governo,
dello stato e delle forze di sicurezza turche. Pochi giorni pri-
ma i due segretari del partito ilo curdo Hdp, Sezai Temelli e
Pervin Buldan, oltre ad altri 3 parlamentari dello stesso parti-
to, sono initi nel registro degli indagati della procura di An-

SOLDI ITALIANI PER L’ENERGIA SPORCA


Davanti c’è il mare, le spiagge di sabbia
chiara ancora affollate di turisti, le coste
con trenta siti archeologici simbolo della
civiltà mediterranea. Dietro, verso le
montagne, si stendono boschi millenari,
laghi, torrenti e, tra le colline, paesi
e villaggi incantevoli, circondati da
viti e oliveti a perdita d’occhio. «Sono
venuto a vivere qui per scappare
dal caos e dall’inquinamento della
capitale Ankara», dice il dottor Haluk
Akbatur, chirurgo oculista riscopertosi
vignaiuolo, aprendo ai ricercatori
italiani la porta del suo rustico in pietra
affacciato su un ruscello da cartolina.
«Quando sono arrivato, pochi anni fa,
questa regione era un paradiso. Oggi
è un inferno». Dietro la collina sale
il fumo nero delle ciminiere. Mega-
centrali a carbone. Fornaci di cemento
e acciaio in riva al mare, che bruciano
il più dannoso dei combustibili fossili.
Tra comuni spopolati, espropriati,
abbandonati dagli abitanti che devono
emigrare per sfuggire ai tumori da
inquinamento. Laghi acidi, con acqua
avvelenata dagli scarichi industriali.
Polvere nera nell’aria, che fa ammalare
le piante ed entra nei polmoni. E tra
le centrali e i boschi, enormi miniere a


cielo aperto, con ruspe che sventrano
i terreni («si mangiano le nostre
campagne», protestano i contadini) per
estrarre carbone di pessima qualità.
Uno scempio, un disastro ambientale
e sociale per la regione di Mugla,
nel sud-ovest dell’Anatolia, la più
devastata da un regime che in tutto il
paese si ostina a scommettere miliardi
sull’energia più inquinante, ignorando
l’allarme mondiale per il clima.
Il presidente turco Erdogan non è
solo un nemico della pace e della
democrazia, capace di scatenare una
nuova guerra in Siria, bombardare i
curdi che hanno combattuto e sconitto
i terroristi dell’Isis, islamizzare una
società laica, annullare elezioni perdute
dal suo partito, imprigionare migliaia di
oppositori. Erdogan è anche un nemico
del pianeta. Il governo turco non ha
aderito all’accordo di Parigi, siglato
nel 2015 da 195 nazioni, per fermare
il cambiamento climatico e bandire i
combustibili più nocivi. Al contrario,
ha varato un piano di autosuficienza
energetica (obiettivo mancato) che dopo
il fallimento delle maxi-dighe ora punta
sul carbone. Con 26 centrali in piena
attività, altre quattro in costruzione, due

società statali mobilitate per sfruttare
miniere sempre più grandi e sussidi
ricchissimi ai privati. Un piano che
chiama in causa anche l’Italia: più di
metà dei inanziamenti esteri per il
carbone turco arriva dal nostro paese.

Il settore è dominato da 13 gruppi
industriali che hanno beneiciato delle
privatizzazioni di centrali e miniere,
in precedenza pubbliche, varate dal
partito di Erdogan. Le società private
sono sovvenzionate dallo Stato con
inanziamenti, garanzie e sussidi
pubblici. Solo gli incentivi iscali alla
produzione e al consumo di carbone
costano oltre mezzo miliardo di euro
all’anno. Il governo ha anche svincolato
le società privatizzate dal rispetto delle
normative ambientali: lo stop ai limiti e
ai controlli anti-inquinamento, in vigore
dal 2014, dovrebbe scadere alla ine
di quest’anno, salvo nuove proroghe.
E le aziende più ricche hanno legami
fortissimi con il partito di Erdogan,
documentati anche da indagini e
intercettazioni, tutte insabbiate dopo le
retate di magistrati e poliziotti bollati dal
regime come golpisti «gulenisti».
Questo articolo si basa su documenti,

di Paolo Biondani

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