18 settembre 2019 | Panorama 67
permette di organizzare altre mostre. È
un’alchimia, o meglio un equilibrismo,
tra qualità dell’offerta, resa economica,
ricerca di un approccio contemporaneo
anche quando si tratta d’arte classica.
Quella contemporanea è comunque
di nicchia. Quindi come si fa?
Credo che si debba coinvolgere
il visitatore in una storia.
Il contemporaneo va sottratto alla
dimensione un po’ oscura in cui spesso
si confina da solo. Prendiamo la mostra
di Tomás Saraceno che stiamo
organizzando per il 2020. È un
quarantenne che lavora su temi del
nostro tempo, come quelli ambientali.
Dall’era dell’Antropocene in cui
viviamo, dove l’uomo ha un impatto
violento sulla natura, Tomás immagina
il passaggio all’Aerocene, l’età dell’aria,
dove il modo di vivere sia più
sostenibile. Esporrà sculture volanti
che fluttueranno nell’aria grazie ai
cambiamenti di temperatura generati
dal sole. Il suo è un nuovo linguaggio
scientifico e poetico che, spero,
incontrerà l’interesse del pubblico.
Quand’è che una mostra raggiunge
il suo fine?
Durante un’esposizione spessissimo mi
confondo tra il pubblico per coglierne
umori, commenti. Ecco, quello che mi
gratifica di più è sentire una signora,
magari abituata solo all’arte classica,
che davanti a un’installazione dice: «Mi
piace...». Nella mia visione il Palazzo
dev’essere una struttura d’incontro,
con varie funzioni. L’anno scorso ci
sono passate oltre un milione di
persone. Abbiamo poi anche progetti
per far fruire l’arte a chi è affetto
da malattie degenerative, come
Alzheimer o Parkinson.
Come giudica l’offerta generale
delle mostre in Italia?
Alcune realtà fanno un lavoro di ricerca
bellissimo, penso a Palazzo Grassi
di Venezia, alla Fondazione Prada e
all’Hangar Bicocca di Milano. Certo,
poi, si vede anche molta ripetitività, ci
si basa sul fare cassetta. Una situazione
però comune anche all’estero.
Di recente, a Firenze, è stata licenzia-
ta la direttrice tedesca dell’Accademia
nonostante avesse ottenuto buoni
risultati. Cosa ne pensa della riforma
dei musei pubblici dell’ex ministro
Bonisoli?
Lavorando in autonomia e
constatando che si vuole toglierne
ai musei pubblici, resto perplesso.
Ma il punto, al di là che si voglia fare
una riforma in senso centralistico o
liberistico, è che questa deve durare
nel tempo, altrimenti non si potrà mai
verificare se funziona o meno.
Per quale quadro si dovrebbe
visitare la mostra di Goncharova?
A me piace il polittico intitolato The
Harvest del 1911, perché con colori
accesissimi racconta l’immaginario
sacro dell’artista. Era davvero avanti
rispetto ai suoi tempi.
Sempre nel 2020, a Palazzo Strozzi ci
sarà la mostra di Jeff Koons. La sua
scultura The rabbit è stata pagata 91
milioni di dollari, record assoluto per
un’opera contemporanea.
Anche in questo caso è la prima
«monografica» di Koons in Italia. Quel
che più m’interessa, però, è mostrare
il suo lato autentico, che va oltre il
glamour e le quotazioni, ed è l’etica
profonda della sua ricerca, la dedizione
e il perfezionismo da artista classico.
C’è chi oggi mitizza le mostre che
si facevano ieri...
Quando Roberto Longhi nel 1951 ha
organizzato la mostra di Caravaggio a
Palazzo Reale, a Milano, ha realmente
lasciato un segno. Ha creato un grande
pubblico per l’arte che fino allora aveva
coinvolto un’élite. Soprattutto ha scelto
un artista del passato che parlava il
linguaggio del presente. Di Longhi non
ce ne sono in circolazione, ma il
pubblico adesso esiste e quella lezione
vale ancora. E così bisogna
contaminare, arricchire il gusto, andare
oltre i soliti tre o quattro nomi già noti
o, in altre parole, aprire la mente. ■
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Arturo Galansino, classe
1976, a Palazzo Strozzi,
davanti a un’opera
di Marina Abramovic
in occasione della sua
mostra del 2018. Sotto,
Reframe, installazione
sulla facciata del Palazzo
realizzata da Ai Wei Wei.
Foto di Alessandro Moggi