Il Sole 24 Ore - 01.09.2019

(Jacob Rumans) #1

8 Domenica 1 Settembre 2019 Il Sole 24 Ore


Commenti


ITALIA-EUROPA

NUOVO GOVERNO


(SE NASCERÀ),


NUOVI PROBLEMI


ALL’ORIZZONTE


C

on la leadership di Giuseppe Conte, lo
scorso luglio il MS ha accettato (pri-
ma) uno schema di legge di Bilancio
 compatibile con le regole dell’Eu-
rozona e (poi) la candidatura di Ursula
von der Leyen a presidente della Com-
missione europea. Così, ciò che non era possibile
dopo il marzo  è divenuto possibile dopo il
luglio . Possibile perché il MS e il Pd possono
ora convergere verso una comune prospettiva
europea di governo. Ciò non vuole dire che tale
convergenza avverrà o avrà successo, anzi. Comun-
que, tale convergenza, se si realizzerà, avrà implica-
zioni sia partitiche che istituzionali.
Per quanto riguarda le implicazioni sui partiti, la
soluzione della crisi sfiderà le loro ambiguità. Il
MS ha già perso, nell’ultimo anno, buona parte
dell’elettorato nazionalista che proveniva dalla
destra sociale (rappresentato da Luigi Di Maio al
Sud e Stefano Buffagni al Nord), elettorato che è
andato a rafforzare la Lega per Salvini premier.
Cosa potrà offrire all’elettorato non di destra che
ancora si riconosce nel suo messaggio politico? Gli
proporrà di sostenere la versione italiana dei cen-
tristi spagnoli di Ciudadanos oppure la versione
radicalizzata dell’Italia dei Valori del passato?
Anche il Pd sarà messo in discussione dalla
partecipazione al nuovo governo, dovendo assu-
mere un approccio più determinato nei confronti
dell’Ue. Nella precedente legislatura, infatti, esso
era finito in un cul de sac, in quanto le più impor-
tanti proposte di riforma (come l’assicurazione
contro la disoccupazione giovanile o la revisione
degli Accordi di Dublino là dove viene responsabi-
lizzato solamente il Paese di primo arrivo a farsi
carico dei rifugiati) furono rifiutate dagli altri
partner europei. Non potrà avvenire di nuovo. E la
Lega? Ha scritto Roberto D’Alimonte su questo
giornale che vi sono diverse Leghe da considerare,
la più importante delle quali (la Lega Nord) appare
poco in sintonia con quella finora predominante
(la Lega per Salvini premier). Quest’ultima ha
conquistato la propria egemonia per via dei suc-
cessi elettorali conseguiti. Ma ora? Se la Lega per
Salvini premier continua il suo percorso sovranista
(antieuropeista e illiberale), la Lega Nord (che ha
una mentalità da centrodestra europeo) che inte-
resse avrebbe a seguirla? La Lega Nord rappresen-
ta forze economiche e sociali che hanno bisogno
dell’integrazione economica e monetaria europee,
non già delle sciocchezze antieuro della Lega per
Salvini premier. La politica economica del nuovo
governo potrebbe aprire un varco tra le due Leghe,
se promovesse investimenti e alleggerisse la fisca-
lità. Ma può farlo se i due partiti di governo si rin-
correranno in proposte redistributive? La stabiliz-
zazione del nuovo governo richiederà dunque
scelte dolorose da parte dei partiti.
Per quanto riguarda le istituzioni, la crisi ha
mostrato che l’Italia non può funzionare senza una
funzionante presidenza del Consiglio. Il capo di
governo (non solo il nostro) è al centro del sistema
europeo e internazionale di interdipendenze. Tra
riunioni (formali e informali) del Consiglio euro-
peo, dell’Euro Summit, del G, del G, il capo di
governo vede più spesso i suoi omologhi stranieri
che i sui ministri nazionali. Tant’è che la ricandida-
tura di Giuseppe Conte è stata prima sostenuta da
una constituency internazionale (si pensi al tweet
di Donald Trump o all’endorsement di Donald
Tusk), poi dal suo partito di riferimento. Sarebbe
ingiustificabile il ritorno ad un premier sotto tutela
del capo del partito di maggioranza (come era
avvenuto nel precedente governo e come Di Maio
vorrebbe ripetere nel nuovo governo) o ad una
presidenza del Consiglio ridondante (come era
avvenuto nel precedente governo, quando si orga-
nizzavano incontri con le parti sociali per preparare
la legge di Bilancio prima al Viminale e poi a Palaz-
zo Chigi). Il presidente del Consiglio e il ministro
dell’Economia debbono poter beneficiare di un’au-
tonomia operativa nelle negoziazioni europee e
internazionali. La soluzione della crisi richiede una
rinnovata centralità del capo del governo, ma le
nostre istituzioni non sanno ancora come consen-
tirla e controllarla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Sergio Fabbrini


«DA TELECOM A CISCO FINO A CUSANI,


ECCO COME È CAMBIATO SAN VITTORE


P


er tutta la vita, Luigi Pagano ha provato a risolve-
re il suo paradosso: permettere con l’isolamento
del carcere il reinserimento dei detenuti, fuori
dal carcere. E ora che è andato in pensione, per
lo storico direttore di San Vittore una riflessione
si impone: «Le celle sono anacronistiche. Biso-
gna pensare talvolta a pene alternative. O il carcere continue-
rà a riprodurre se stesso», sentenzia l’uomo che ha cambiato
il rapporto tra il mondo di fuori e quello di dentro, già nume-
ro due del dipartimento dell’Amministrazione penitenzia-
ria, dopo i  anni passati nel principale istituto milanese e
poi alla guida di quelli lombardi. Sono i numeri e l’esperienza
a dimostrarlo: più stai dentro senza prospettiva, più torni
dentro. Con buona pace della funzione rieducativa voluta
dalla Costituzione, «che temo non venga rispettata», sospira.
Il carcere come extrema ratio è l’obiettivo - «proclamato
da qualsiasi legge, ma sempre smentito» - e allo stesso tem-
po è l’auspicio che quest’inguaribile ottimista napoletano,
adottato da Milano, professa da sempre. «È la logica ancor
più che l’ideologia», spiega Pagano, forte degli studi sulla
recidiva che dimostrano quanto chi ha più accesso a misure
alternative, tenda meno a commettere nuovi reati. Un lavo-
ro dell’Università dell’Essex, con Fondazione Einaudi e Il
Sole  Ore dimostrò come il ritorno a delinquere diminuis-
se di nove punti, per ogni anno di prigione passato nel car-
cere lombardo di Bollate, simbolo delle attività di studio-la-
voro. Numeri difficili da far valere nel dibattito politico, an-
cora più difficili da comunicare nella stagione dell’industria
della paura, delle pene esemplari, del «marcire in galera»


  • «di cui però l’(ex, ndr) ministro Salvini si è scusato», ricor-
    da Pagano - e delle strette, invocate dopo ogni fatto di cro-
    naca, «col rischio di annullare la stagione di riforme». Così
    la risposta all’affollamento, un dramma nell’afa estiva, è
    l’annuncio di nuovi penitenziari. «È sempre stato così! E
    comunque per una riforma dell’ordinamento è sempre ser-
    vito l’appoggio dell’opinione pubblica. E questo può creare
    un cortocircuito», è l’obiezione di Pagano, che cita nomi e
    precedenti dei suoi  anni in carcere.
    Quarant’anni, passati attraverso stagioni diverse, mille
    colori politici e dentro molti pezzi della storia d’Italia, vissuti
    da un osservatorio esclusivo. Per primo, il carcere di massima
    sicurezza di Pianosa, durante l’emergenza terrorismo; poi
    l’Asinara, negli anni di Raffaele Cutolo, il capo della nuova
    camorra organizzata, che alla sua presenza tra l’altro si sposò;
    ci furono poi gli istituti nel mirino dei terroristi, come Badu
    ’e Carros dove fu ucciso il boss Francis Turatello o Taranto.
    Poi nella sua carriera c’è stato soprattutto San Vittore. «Pen-
    savo di resistere un mese, sono durato quindici anni», sorride
    Pagano, mentre osserva la riproduzione alla parete dell’im-
    magine cult del film di Totò e Peppino col ghisa in piazza
    Duomo. All’inizio, anche per lui Milano era quella, poi Milan,
    l’è sempre un gran Milan e soprattutto quel carcere ottocente-


sco è diventata «la sua casa amata: qui è nato mio nipote. Ma
San Vittore o viene riportato al numero consentito di detenuti
o deve vivere in modo diverso». Più volte, sono stati valutati
progetti di spostamento della cittadella giudiziaria nella zona
di Porto di Mare. E «anche se il carcere dovrebbe stare in città,
i casi di Bollate e Opera - nota, pragmatico - dimostrano che
si può stare fuori, se i servizi funzionano».
Quando ci incontriamo nel suo ormai ex ufficio, per Paga-
no sono gli ultimi giorni da provveditore e più volte questo
ex scugnizzo di Torre del Greco, diventato uno dei milanesi
insigniti dell’Ambrogino d’oro, si girerà verso l’ingresso di
San Vittore, coperto dal cantiere della metro. «È perfetto per
venire a seguire da pensionato i lavori», scherza nel suo or-
goglioso accento partenopeo, ben consapevole di poter an-
cora mettere a frutto l’esperienza fatta. E qualcuno glielo
chiederà. Nella sua carriera è passato dalle carceri speciali
degli anni di piombo a quelle aperte, dove lui ha introdotto,
ad esempio, il rito dell’altra Prima della Scala. Dall’osservato-
rio di San Vittore, Pagano ha vissuto grandi cambiamenti:
la trasformazione della criminalità dai tempi delle bande
organizzate; la violenza ceca del terrorismo; il crollo della
Prima Repubblica, con Mani Pulite; fino ad assistere alla qua-
si totale identificazione tra popolazione detenuta e margina-
lità sociale. «Alcuni non vengono ammessi a misure alterna-
tive, perché senza casa, lavoro e famiglia. Il paradosso è che
a loro il carcere dà più di quanto avrebbero fuori».
In fondo da sempre, per dirla con il garante dei detenuti
Mauro Palma, il carcere è «lo specchio dei problemi non
risolti di fuori». Tanti, a giudicare dalle celle, piene più di
quanto potrebbero: . i reclusi dell’ultima stima a fine
giugno, per una capienza regolamentare che prevede
mila posti in meno. A riempire i penitenziari, tanti stra-
nieri, ancora di più quelli che provengono dai gironi della
tossicodipendenza, a volte con meno di un anno da sconta-
re. Così la filosofia di questo napoletano, scettico verso tutti
i Masanielli e le rivoluzioni immediate, abituato invece a
cambiare ogni giorno un po’ le cose, lo porta a «pensare
all’introduzione di più servizi per i tantissimi con problemi
di droga: bypassare le celle, trovando una comunità, come
già prospettato in passato ai servizi per le tossicodipenden-
ze. Già così, si eviterebbe il sovraffollamento».
Quella della capienza è una delle principali questioni nel
mondo dell’amministrazione penitenziaria, che diventa
dramma quando le celle si arroventano ed è più difficile ga-
rantire le minime condizioni di dignità. «Così sovraffolla-
mento e scarsa possibilità di assolvere alla funzione di recu-
pero viaggiano insieme», riflette Pagano, pronto sempre «a
partire da quello che già c’è, piuttosto che aspettare quello
che dovrebbe arrivare. Bisogna guardare in prospettiva, ma
contemporaneamente darsi da fare o l’attesa di una nuova
legge diventa un alibi. E aspettando il carcere del futuro si
rischia che quello di oggi torni ancora più indietro. Bollate è

stato inaugurato nel , con gli strumenti a disposizione».
Questa impostazione ha ispirato il suo agire, nelle varie
emergenze, come nell’aprire le celle all’esterno e in direzione
opposta portare la città dentro, nella consapevolezza - leit-
motiv di uno storico ex direttore del Dap, Nicolò Amato - che
carcere e territorio non sono distinti, ma «il carcere è territo-
rio». E di quel territorio è specchio. «Non a caso Milano è
stata determinante, per realizzare quello che è stato fatto.
Altrove Bollate non sarebbe nata», rivendica Pagano.
Nei suoi ricordi, ci sono decine di esempi di collaborazioni
con l’imprenditoria, il volontariato, il mondo della cultura,
che rendono oggi possibile imbattersi all’interno di San Vit-
tore in una lezione sul Salvator Mundi di Leonardo, nel repar-
to de La Nave; o incontrare detenuti, impegnati a rispondere
al primo call center in carcere. «Attraverso Milly e Massimo
Moratti e Lalla Cadeo, moglie del conduttore tv Cesare, entrai
in contatto con la Telecom allora guidata da Marco Tronchet-
ti Provera: c’era manodopera, c’era il suolo in comodato gra-
tuito e invece di delocalizzare si dava un’occasione di lavoro.
Ora molti penitenziari vivono sui call center. Tra gli altri, ha
creduto in noi il capo della Cisco, autorizzando corsi di for-
mazione e ora alcuni ex detenuti hanno la responsabilità
della sorveglianza informatica di più banche. Era utopistico
pensarlo, è fantastico a dirsi. E un ex ergastolano, ora im-
prenditore, offre ad altri una seconda possibilità».
Tutto questo è possibile quando ci sono le condizioni per
assolvere al mandato di recuperare chi ha rotto il patto socia-
le. E queste vengono meno, se in una «cella per due, ci sono
sei persone, con rischi di contagi, tensioni, cedimenti; ci sono
difficoltà per i colloqui e si è costretti a trasferimenti». Una
descrizione che corrisponde all’estate peggiore vissuta da
Pagano, quella di Tangentopoli. «C’era-
no . detenuti a San Vittore, per una
capienza attualmente ridotta a  po-
sti. E in quei giorni avemmo una visita
della commissione antitortura, che nel-
la relazione al Governo definì proprio
“tortura” le condizioni dell’istituto». In
quel carcere, nell’estate del ’, si suici-
dò Gabriele Cagliari, l’ex presidente Eni.
«Avevo parlato con lui un paio di giorni
prima, gli proposi di lavorare. Mi rispo-
se che ci avrebbe pensato. Ho riflettuto
tante volte su quel colloquio, sulle paro-
le dette, se e come avrei potuto capire.
Ogni suicidio è un atto d’accusa, che ti
interroga. Quel giorno, chiamai il pro-
curatore Francesco Saverio Borrelli.
Eravamo sconvolti». Un ricordo, che di-
venta più nitido, man mano che Pagano ritorna a quella sta-
gione di  anni fa e ripensa al capo del pool, morto il  luglio
scorso. «Un paio di volte mi chiamò alle , per avere risposte
dopo lamentele di detenuti». Proprio per il suo sforzo di voler
creare occasioni di lavoro, Pagano aveva incontrato a inizio
’ anche l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, per
«sondare il terreno, per una collaborazione con la Croce Ros-
sa». Poi il  febbraio, si ritrovò Mario Chiesa a San Vittore. E
uno dietro l’altro, tutti gli altri, come il «difficile» Sergio Cusa-
ni, «che si era messo in testa di rivoluzionare il carcere».
In quei raggi, «non ci fu subito l’esatta consapevolezza di
quanto stava per succedere. E la complicazione ulteriore era
garantire un supporto adeguato a persone non abituate».
Quello però fu il momento in cui il mondo di fuori scoprì il
carcere e ascoltò le voci di dentro. «Tangentopoli permise di
aprire le celle a commissioni varie, a politici in visita, alla
stampa. Tutti si resero conto che la città di Cesare Beccaria
non poteva tenere in quelle condizioni chi viveva qui». Dal-
l’altra parte cioè del muro di cinta, che tiene lontano dallo
sguardo e dalle coscienze il mondo dei reclusi, visitato di
recente dalla Corte Costituzionale nel suo Viaggio in Italia
e dal presidente della Repubblica, che nel ristorante aperto
a Rebibbia, come a Bollate, ha voluto cenare.
La questione allora ritorna a essere il fatto che «il modello
non è Bollate, ma l’ordinamento. Anche se il paradosso -
sospira - è che ci viene consentita l’eccezionalità, ma non
riusciamo a governare la normalità». Eppure, ogni giorno
un po’, lui è riuscito a cambiare il carcere, anche perché
«quando incontri dentro tuoi ex compagni di gioco pensi che
a volte sia pure una questione di incontri. Essere dialogante
lascia comunque un granello». Lo capì, quando nel ventre
di Napoli un contrabbandiere di sigarette gli disse «siete uno
buono». Più che altro uno che davanti a ogni detenuto si ripe-
teva con Kafka, che «non aveva più scelta, se accettare o rifiu-
tare il processo. Vi era dentro e doveva difendersi». E incon-
trare un «carceriere progressista» può fare la differenza.
á@rafcalandra
© RIPRODUZIONE RISERVATA

di Raffaella Calandra


Servitore
dello Stato.
Luigi Pagano,
laurea
in giurisprudenza,
sposato, due figli,
65 anni, napoleta-
no, è stato
direttore di molti
istituti, ultimo
San Vittore
per 15 anni.
Il suo primo
incarico fu nel
carcere dell’isola
di Pianosa.
Nei suoi anni
di lavoro è stato
un testimone
e un protagonista
del processo
di cambiamento
e ripensamento
del carcere.

A tu per tu.Luigi Pagano , lo storico direttore del carcere milanese, ora in pensione, racconta l’incontro


con l’imprenditoria durante e dopo Tangentopoli. Perché servono pene alternative alla detenzione


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