Corriere della Sera La Lettura - 25.08.2019

(sharon) #1

DOMENICA25AGOSTO2 019 CORRIEREDELLASERALALETTURA 41


nale e astratto, ma pur sempre di estra-
zione popolare,conladanza urbana di
BrunoBeltrão, un crogiuolo di stili che
incrociano ilcontemporaneoconcettua-
le al linguaggio dell’hip hop in chiavete-
atrale. Dalla passione per il cinema tridi-
mensionalecoltivata da bambino, Bel-
trão ha imboccatoquasi percaso la via
delladanzafondando, appena sedicen-
ne, il Grupo De Ruacon l’amicoRodrigo
Bernardi che ha finito per lasciargli il ti-
mone dellacompagnia. «Volevo nobilita-
rel’hip hopateatro, traducendo sulla
scena ilvocabolario articolato della stre-
et dance, ma non pensavo chefosse l’im-
presa di una vita», afferma oggi l’autore
trentanovenne, originario della città di
Niterói, un sobborgo di Rio deJaneiro.

L’esordiocomecoreografodel duetto
FromPopping thePop, a Copacabana nel
2001, l’ha imposto sulla scenacontempo-
ranea internazionale, grazie atour in 33
Paesi, portandoloavincereilBessie
Award a NewYork nel 2010con lo spetta-
coloH3.Iltitoloconcui Beltrão si pre-
senterà aRoma èInoah(in prima nazio-

nale il 25 e 26 settembre all’Auditorium
Parcodella Musica, SalaPetrassi), una
coreografia per dieci danzatori di Grupo
De Rua nella quale il segno urbano del-
l’hip hop si astrae dalcontestocompeti-
tivo della street dance, asciugando lafor-
ma acrobatica di ribaltate, mulinelli,ron-
date, rimbalzi in una partitura cinetica
che ne frammenta e ricompone icodici,
incalzata dalla musica diFelipeStorino.
Dopo un incipit soft illuminato da luci
dorate, l’adrenalina galvanizza i muscoli
deiboyin contorsioni, balzi orizzontali e
avvitamenti sullatesta: 50 minuti di vigo-
rosa energia che aprono squarci inattesi
alla dimensione più poeticadellerela-
zioni umane, evocano immagini di mi-
granti alla deriva su zattere e marciapie-
di, suggeriscono antiche dinamiche di
potere,tra sopraffazioneesottomissio-
ne.Una riscrittura intellettuale della sin-
tassi della street danceche diventa in-
venzionecoreografica e ricerca dramma-
turgica nel modo di abitare lo spazio sce-
nicoediinterpretarefisicamente
l’alteritàcontemporanea.
©RIPRODUZIONERISERVATA

di mezzo secolo non si fa che riflettere su ciò che
si è, su chi si è diventati, su ciò che sono diventa-
te la Va l d’Orcia, laToscana, l’Italia.
Unariflessione che riguarda (eccoil punto
cruciale) l’intero paese che si mette in scena.Sto
parlando di un «borgo» di duecentoabitanti:
non vi è nessun cittadino che non partecipi alla
elaborazione e allacostruzione dello spettacolo.
Nessun cittadino che non identifichi il proprio
teatrocon la propria vita.


C’è in più un fatto che non si può trascurare: io
stesso, che andai a Monticchiello la primavolta
nel 1969, ho visto invecchiare gli attori di questo
teatro nell’identico modo in cui ne ho visti tanti
altri, che tutticonosciamo. Ma questi non sono
individualmente famosi, non liconosciamo e si
trovano di fronteaunproblema di semprepiù
difficile soluzione.Una piccola comunità (comu-
nità è più giusto che società)come perpetuerà sé
stessa? Come potràcontinuareaesisterein
quanto proprietà del borgo, sua stessa sussisten-
za, e proprietà, suacoscienza di sé, di un gruppo
ristretto di persone che invecchiano mentre i lo-
rofigli se nevannoeinipoti, quando ci sono,


che qui sono rimasti, prima o poi se ne andran-
no? Questo è lo «stato provvisorio» cui si riferi-
sce il titolo dello spettacolo del 2019.

Pure, non è solo questo.
In esso, l’ho accennato, lacomunitàvedecau-
se ed effetti che riguardano la propriacomunità
ma anche l’intera società, il suo sviluppo. Quan-
do entriamo inteatro, ossia nella piccola piazza
sovraffollata di persone che tuttevengono ogni
sera anche da lontano, ciò che sivede è una sce-
na non ancora allestita: le travi del palcoscenico
sono poggiateleune alle altreinverticaleodi
traverso, gli attori sono falegnami o fabbri o non
so che. Si sentono battereimartelli. Si stanno
mettendo chiodi su chiodi.
Poi, ecco, i monticchiellesi che sono lì, su quel
palcoprovvisorio,ovvero«transitorio»,comin-
ciano a parlare. Intoscano, avolte in dialetto pu-
rissimo. Maforte e chiaro.Parlano di sé, del loro
sentirsi mancarelaterra (o le tavole di scena)
sottoipiedi, del timorediuna estinzione pro-
gressiva. Ma non hanno paura, né gli uomini né
le donne. Non sono tipi da averne.Però non pos-
sono non prendereattodel tempo e, di più, di

ciò che iltempo fa mentre loro lavorano, studia-
no, si preparano,recitano. Si parlano da lontano
e da vicino. Si danno lavoce. Avolte urlano.Per-
fino bisticciano. In una faccenda sono tuttavia e
senza ombra di dubbio alla fineconcordi: nel ri-
tenerelagiornalistavenuta per una intervista
nientealtroche una «stampigliona»:come la
chiama Arturo. «Chi è checomanda qua dentro?
Chive le suggerisce lecose che dovete dire negli
spettacoli? Scommettochec’èqualcuno che vi
imbecca, giusto?».
Non basta, per la giornalista di moda prestata
alla bisogna, non solo occorrerebbe qualche no-
me di prestigio, da ogni lettore riconoscibile, ma
«liconosciamo, quellicomevoi: sempreala-
mentarsi, a fare le vittime! E poveri di qua, e po-
verini di là... Ma ora l’aria ècambiata,cari miei.
Ora lecose inizierannoafilaredrittoanche in
posticome questo... Dritto,capito?Èfinita la
pacchia, pure pervoi! Pescirossi nel barile... Lo
sanno bene, dove si conta, checosa fate da que-
ste parti, altroché...».
Macosa si fa da queste parti lo aveva dettoRo-
sanna poco prima: «La scuola, la banca, i nego-
zi... Qui i numeri so’ quelli che so’: i servizi per
noi è da un pezzo che so’ un miraggio. Io devo
anda’ all’ospedale trevolte al mese, e se ’unfosse

per la mi’ nipote che si fa in quattro... L’autobus,
qui da noi, ’unc’arriva mica».

Dopotutto,come sivede nelle immagini del
passato chevengono proiettate sui muri laterali,
siamo di fronteagentecuicertecose proprio
non si possono dire. Iris Origo nel suo indimen-
ticabileGuerrainVald’Orciaaveva raccontato le
gesta di questi cittadini divenuti partigiani, e io
stesso ricordo che itemi dei primi spettacoli era-
no quelli della loro storia, dellaResistenza aite-
deschi divenuti nemici.
Èlaragione per cui infondo (infondo allo
spettacolo, nell’ultima scena)comparirà un fu-
turo,compariranno i ragazzini. Non solo quelli
che nel 1944 furono mandatiaMontepulciano
per trovare un rifugio alla propria orfanezza, non
solo quelli che al modo di Greta frattanto sono
andati aRoma per ilFridayforFuture, per lero-
vine prodotte dal clima, ma anche gli adolescen-
ti e i bambini che a Monticchiello ci vivono e che,
in un modo o nell’altro, ne proseguiranno la sto-
ria, nerenderanno, sempre,ovvero mai, del tutto
transitorio loStato.
©RIPRODUZIONERISERVATA

Lacoreografa
Lia Rodrigues (SanPaolo del
Brasile, 1956) ha danzato
nellacompagnia della
francese Maguy Marin dal
1980 all’82.Dal 2004,
lavora nellafavela de Maré,
a Rio. Aprirà la nuova
edizione diRomaeuropacon
Furia(foto grande) su
musica rituale della Nuova
Caledonia (dal 17 al 19
settembre,AuditoriumParco
della Musica, SalaPetrassi:
romaeuropa.net)

i


Ilcoreografo
Bruno Beltrão (Niterói,
Brasile, 1979) nel ritratto
sopra) hafondato, all’età di
16 anni, Grupo de Rua,
compagnia per la quale ha
sviluppato la sua visione di
coreografo, premiato nel
2010 dal Bessie a NewYork
perH3. ARomaeuropa
presenterà in prima
nazionale (25 e 26
settembre,AuditoriumParco
della Musica, SalaPetrassi),
la coreografia per 10
danzatoriInoah, musica di
Felipe Storino (qui sopra un
momento dello spettacolo,
foto di Kerstin Behrendt)
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