la Repubblica - 20.08.2019

(nextflipdebug5) #1

L’autore


do. Non sembrava neppure sfiorato da quanto stava accadendo. Il
Pm Baldini aveva concluso ufficialmente l’interrogatorio alle dicias-
sette e sette minuti e si era attaccato al telefono per ottenere l’affian-
camento di un consulente psichiatrico. Rischioso, perché significava
ammettere che il soggetto poteva essere incapace di intendere e di
volere, cosa che avrebbe creato dei grattacapi durante il dibattimen-
to, ma la priorità non era dare a Gert il massimo della pena, era trova-
re la ragazzina.
Orlandi si recò alla postazione radio. L’operatore gli riferì che le
squadre stavano setacciando la zona in cui Gert era stato fermato
ma, per il momento, senza risultati. Sforzandosi di nascondere la fru-
strazione, il capitano parlò qualche minuto con gli uomini del Gis,
ringraziandoli per il loro operato. Infine decise di averne abbastan-
za. Aveva bisogno di cinque minuti di solitudine, nell’ufficio coman-
do. Dove trovò Chiara.


  • Da quanto non dormi? – gli chiese la moglie. E gli allungò una latti-
    na di Coca-Cola.

  • Fa male ai denti. Ma grazie.
    La donna sorrise e chiuse la porta dell’ufficio.

  • Vuoi? – chiese.

  • Cosa?
    Chiara girò la chiave nella serratura e ripeté la domanda.

  • Vuoi?

    Terlizzi spense la telecamera e aiutò il prigioniero ad alzarsi.



  • Dove andiamo?

  • Nella cella di sicurezza.

  • Gabbia. Ancora in gabbia.

  • Già, – fece Terlizzi, accompagnandolo senza troppi riguardi. – Me-
    glio che ti ci abitui.
    Gert si irrigidì. C’era una piccola folla di carabinieri a fissarlo. Chi
    con le mani in tasca, chi a braccia conserte. Uomini dal viso mal rasa-
    to che non vedevano le loro famiglie da due giorni. Uomini che lo fis-
    savano in cagnesco, altri che lo scrutavano alla ricerca di quel segno
    che poteva significare vita o morte di Dora. E una donna dall’aria scar-
    migliata, i capelli neri e gli occhi di ghiaccio.
    Gert vide solo quelli: occhi. E iniziò a tremare.

  • Non spenga la luce, brigadiere, – sussurrò.

  • Cosa?

  • Non spenga la luce, – supplicò Gert, piangendo. – Non la spenga,
    per favore.

  • Cosa succede se spegniamo la luce, Gert? – fece la dottoressa Pel-
    legrini, facendosi largo a gomitate.
    Prima che Terlizzi riuscisse a opporsi, Gert cadde in ginocchio.

  • Occhi nel buio. La prego. Non spenga la luce.
    C’era un tale terrore nello sguardo del prigioniero che la dottores-
    sa Pellegrini faticò a parlare. Ma lo fece. Per Dora.

    Quando il capitano Orlandi spalancò la porta aveva la cravatta slac-
    ciata e il viso arrossato. La Pellegrini guardò prima lui, poi la moglie,
    che si stava tirando su la bretella dell’abito estivo.



  • Sappiamo dov’è Dora, – disse la Pm, sforzandosi di mantenere il to-
    no neutro.

  • Cosa?

  • Abbiamo fatto un accordo. Luci accese in cambio della posizione
    della bambina.
    Orlandi capì solo l’ultima parte dell’accordo. Corse verso gli uomi-
    ni del Gis, sbraitando ordini.

  • Dottoressa? Mi aiuta?
    La moglie del capitano Orlandi le mostrava la schiena, là dove la
    zip dell’abito lasciava scoperta la carne. Non portava reggiseno, notò
    la Pellegrini accostando la porta dell’ufficio. L’odore che permeava
    la stanza le fece tornare in mente brutti ricordi.
    Chiara Orlandi teneva i capelli sollevati perché non si impigliasse-
    ro nella cerniera. La Pm tiro su la zip e la chioma bionda della moglie
    del capitano tornò a risplendere. Sembrava una ragazzina.

  • Posso farle una domanda, dottoressa?

  • Prego.

  • Lei non è sposata, vero? Gli uomini non amano le donne di pote-


re. Ne sono attratti, ma poi se la fanno sotto.


  • Non credo di essere una donna di potere. Faccio solo il mio lavo-
    ro.

  • Lei parla come un uomo, eppure non riesce a vedere le cose come
    un uomo? Però sono d’accordo con lei. Esistono diversi tipi di potere.
    Mia nonna, la notte prima delle nozze, mi diede un consiglio. Chi per-
    dona, vince. Le solite cose da nonne, mi sono detta. Invece... – Chiara
    Orlandi si voltò verso di lei, senza perdere il sorriso, aggiustandosi
    un orecchino. – Chi perdona, vince. Buffo dirlo qui, non trova? Qui
    non esiste perdono.

  • C’è giustizia, è un’altra cosa.
    La Orlandi storse il naso.

  • Ancora una risposta da uomo. Gli uomini si riempiono la bocca
    della parola giustizia, eppure non hanno la più pallida idea di cosa
    sia. La loro giustizia è una specie di vendetta goffa e zoppa.

  • Temo di non seguirla, e devo proprio...
    Chiara Orlandi la trattenne, aggiustandole una ciocca di capelli
    sfuggita alla coda.

  • Chi viene perdonato, dottoressa Pellegrini, vivrà sempre nella
    paura. Di perdere i figli, per esempio. Di uno scandalo che porrebbe
    fine alle ambizioni. Di ricevere lo stesso trattamento. Fine pena, mai.
    Non è una condizione terribile?

  • Qualcuno lo chiama ricatto.
    Gli occhi di Chiara Orlandi si fecero di pietra.

  • Parla ancora come un uomo, dottoressa. Io preferisco il termine
    conseguenza.

    L’elicottero con a bordo quelli del Gis filava a duecentotrenta chilo-
    metri orari, sfiorando le cime degli alberi. Più di così, aveva detto il pi-
    lota, l’EC non poteva andare. I cinque uomini incappucciati mostra-
    rono il pollice. Non si aspettavano azione. Il sospetto era in custodia,
    si trattava solo di andare a prendere la ragazzina, tranquillizzarla e ri-
    portarla ai propri familiari.
    Dei cinque, quello calvo era il più alto in grado e l’unico che avesse
    una figlia. La sua Marisa aveva diciotto anni, era un asso della pallavo-
    lo e aveva un modulo di iscrizione all’accademia ufficiali sulla scriva-
    nia. Quando Russo l’aveva visto era stato preso da uno strano miscu-
    glio di emozioni. Orgoglio, naturalmente. Paura. Era raro che gli uo-
    mini del Gruppo interventi speciali raccontassero della loro apparte-
    nenza a quel nucleo d’élite. Erano in pochi a saperlo. Amici, parenti e
    soprattutto figli, almeno fino a una certa età, li consideravano norma-
    li carabinieri, ed era meglio così. Il sottotenente Russo, vedendo quel
    modulo, aveva deciso che era giunto il momento di mostrare il Me-
    phisto alla figlia. Di dirle cosa significava la scelta che stava per intra-
    prendere. L’avrebbe fatto con delicatezza, senza spingere in un sen-
    so o nell’altro, ma voleva che lei fosse consapevole dei rischi cui anda-
    va incontro. Per questo era contento, mentre il pilota segnalava me-
    no di un minuto al punto d’ingaggio. La storia della ragazzina era pra-
    ticamente finita e il giorno dopo lui sarebbe tornato a casa per parla-
    re con Marisa. E chi lo sa, pensò controllando che i moschettoni scivo-
    lassero bene, magari un giorno sarebbe dovuto scattare sull’attenti
    proprio di fronte alla figlia.
    Che tempi assurdi.
    L’elicottero si fermò in hoovering a circa sette metri dal suolo. I cin-
    que uomini iniziarono la calata. Toccarono terra in pochi secondi. E
    avanzarono.




    Dora fu svegliata da un rumore. Le girava la testa. Aveva la febbre,
    ormai non c’erano dubbi. Una febbre cattiva. Di nuovo quel rumore.
    Passi. Ovattati. Gert, pensò. Afferrò il coltello multilama e si preparò.
    Quando gli uomini con le torce sbucarono dall’oscurità Dora scop-
    piò in lacrime.
    Era libera.




L’animale più pericoloso Luca D’Andrea


Luca D’Andrea
È nato a Bolzano, dove vive,
nel 1979. Per Einaudi ha
pubblicato La sostanza del
male (2016), Lissy (2017)
e Il respiro del sangue (2019)


  1. (continua) domani la dodicesima puntata
    Copyright © 2019 Luca D’Andrea Pubblicato su licenza Giulio Einaudi
    editore s.p.a., in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
    (PNLA).


(^). Martedì, 20 agosto 2019

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