N
el linguaggio corrente, “governo
istituzionale” è quasi sinonimo di
“governo del presidente”: voluto dal
Quirinale in particolari situazioni di crisi
per consentire una tregua nel conflitto tra i
partiti. Ora invece il “governo
istituzionale” è invocato a pieni polmoni
da esponenti della politica - Renzi ma non
solo - come surrogato di un vero patto
parlamentare tra forze che vogliono
evitare le elezioni anticipate, ma al tempo
stesso desiderano annacquare l’effetto
mediatico della loro convergenza. Con una
differenza: i Cinque Stelle sono pronti a
qualunque combinazione per sottrarsi alle
urne, mentre l’altro contraente
indispensabile, il Pd, è incerto, diviso
com’è tra il “no” ribadito da Zingaretti e il
possibilismo dei centristi, da Franceschini
a Gentiloni.
Viceversa con Renzi è frattura totale e
quindi, in questa crisi appena agli inizi, il
centrosinistra resta in prudente attesa di
Mattarella e delle sue indicazioni.
In una democrazia parlamentare, è del
tutto legittimo, anzi necessario, cercare
una maggioranza alternativa prima di
convocare nuove elezioni che peraltro
sono il ricostituente naturale delle
istituzioni. La domanda quindi è: l’ipotesi
avanzata sui giornali definisce una
maggioranza credibile? O meglio: esiste
un’alleanza possibile, anche tra partiti
lontani tra loro, con un obiettivo condiviso,
uno scopo che non sia solo guadagnare
tempo e saldare i conti aperti all’interno
delle varie fazioni? Aggregare una
maggioranza spuria e raccogliticcia,
lasciando all’opposizione la Lega, che in
questo momento è senza dubbio il partito
di maggioranza relativa (forse oltre il 40
per cento in accoppiata con Fratelli
d’Italia) è un rischio molto alto. A meno di
non essere sicuri di ingessare la legislatura
fino alla scadenza naturale, così da
eleggere anche il prossimo presidente
della Repubblica. E prima di quella
scadenza, riscrivere la legge elettorale in
senso proporzionale, sfruttando
l’opportunità offerta dal taglio dei
parlamentari voluto dal M5S (riforma alla
quale Renzi si è opposto fieramente nelle
prime tre letture).
Tutto ciò avrebbe un senso politico, ma
richiede un’intesa di ferro che comprenda
un arco molto ampio (Pd, M5S, europeisti,
estrema sinistra, almeno una parte di
Forza Italia) e nervi saldi. Altrimenti,
riprendere il governo per qualche mese,
fare la manovra e poi andare a votare,
avrebbe il solo effetto di rinvigorire Salvini,
lasciato fuori a dipingersi vittima del
sistema. Uno contro tutti. Quel Salvini che
forse si rende conto di aver commesso
parecchi errori negli ultimi giorni. A
cominciare dalla mozione di sfiducia al
governo di cui la Lega è e rimane parte
consistente. Bastava ritirare i ministri per
mettere in crisi Conte, ma c’è chi non
desidera abbandonare il Viminale. Senza
rendersi conto che in Italia non è
verosimile una campagna elettorale fatta
da un aggressivo capo-partito che è anche
ministro dell’Interno. Un uomo che
esprime “piena fiducia nel Quirinale” con il
tono di chi intende: «purché faccia quello
che dico io».
Per tornare al tema del governo
pseudo-istituzionale, già sterilizzare
l’aumento dell’Iva richiede un alto grado di
intese politiche: si tratta di tagliare sul
serio la spesa oppure aumentare tasse e
imposte. A meno che il sottinteso sia un
altro: chiedere alla Commissione di
rinviare la scadenza in cambio del fatto che
il nuovo governo ha messo fuori causa
Salvini. A maggior ragione, l’orizzonte non
dovrebbe essere di pochi mesi ma di due
anni e mezzo. Chi ha spalle abbastanza
forti per reggere una sfida del genere?
I segue dalla prima pagina
N
on sarà comunque facile per la minoranza di Salvini
spiegare perché ha voluto abbattere un governo di
cui era proterva maggioranza. Né le sarà agevole
insistere, con disprezzo dell’evidenza, che il motivo sta
nei troppi “no” ricevuti negli ultimi mesi. La realtà
racconta che dal 26 maggio, giorno del trionfo leghista
alle Europee, i rapporti di forza dentro l’esecutivo, già
squilibrati a favore del socio numericamente più
piccolo, si sono prestamente trasformati in una vera
sudditanza. Dal basso del suo 17 per cento, contro una
forza col doppio dei consensi, Salvini ha collezionato
una sfilza imbarazzante di atti di sottomissione: decreto
sicurezza, Tav, nessun disturbo sulle ombre lunghe di
Moscopoli né sullo spettro dei 49 milioni scomparsi
dalle casse della Lega. Un compagno di viaggio così
supino ai tuoi desiderata era impossibile persino
immaginarlo. Eppure neanche il suicidio del Movimento
è bastato. Movimento che si è auto-avvelenato, goccia
dopo goccia, pur di evitare la goccia fatale, quella delle
urne.
Su che cosa abbia fatto saltare il traballante banco
gialloverde, e sul perché Salvini abbia deciso di giocarsi
il futuro con una fretta che neanche i sondaggi a lui più
favorevoli giustificherebbero, le interpretazioni si
sommano ma in fondo non spiegano. Evitare di
accollarsi l’inevitabile legge di Bilancio da almeno 23
miliardi, l’aumento dell’Iva, la pressione delle procure
che prima o poi stringeranno qualche nodo sui traffici
dell’ex sottosegretario Armando Siri o sul via vai
all’Hotel Metropol, ambasciata russa della Lega (e, non a
caso, il nuovo re di spiagge e selfie ha già annunciato
che cambierà la giustizia dalle fondamenta, modalità
ruspa). Eppure, neanche sommando questi e altri
addendi, il saldo finale torna. Qualcuno o qualcosa, non
certo il bagno di folla al Papeete Beach, deve aver
convinto il capo della Lega all’uno contro tutti in un
momento meno favorevole, e anche meno
comprensibile, di quello che gli si presentava
all’indomani delle Europee. Perché allora no e adesso sì?
Perché, invece di cogliere l’attimo, ancora a inizio
giugno sfoderava un aplomb da uomo delle istituzioni,
sostenendo a più riprese che «l’ultima cosa di cui il
Paese ha bisogno è una crisi di governo, e quindi
proseguiremo nella nostra azione fino a fine mandato»?
La bestiale macchina della propaganda leghista è già a
pieno regime. Glisserà sull’improvvisa inversione di
marcia del ruvido leader, sparerà ad alzo zero contro gli
ex alleati ex grillini, bastonerà il Papa che ha evocato il
fantasma di Hitler a proposito dei sovranismi, abbaierà
all’Europa fingendo che l’Italia possa farcela da sola e
sfidandola sul terreno minato dei parametri economici.
Su quest’ultimo punto, cruciale per i destini di uno dei
Paesi madre dell’idea stessa di Europa, per inciso l’unico
continente al mondo che sarà guidato per i prossimi
cinque anni da una liberaldemocrazia, lo scatenato
Salvini ha già messo le cose in chiaro: «Abbasseremo le
tasse, indipendentemente da cosa dice la Ue». Una
spericolata manovra in deficit su deficit. Se non è
ancora “l’Italexit”, pochissimo ci manca.
Circolano in questi giorni ipotesi fintamente nobili di
governi tecnici, di scopo, del presidente, istituzionali, a
responsabilità limitata, di garanzia a scadenza e di
scadenti collanti. L’obiettivo sarebbe triplice:
traghettare l’Italia fuori dalla tempesta perfetta che si
sta delineando, conservare posti in Parlamento
altrimenti irrimediabilmente perduti, e infine lasciare
cuocere l’avversario più temibile in un rabbioso
isolamento. Andasse in porto un disegno simile, Salvini
si gonfierebbe come il PacMan giallo dei primi
videogiochi, ingloberebbe alimentandola ogni stilla di
risentimento vagante contro la casta, il complotto dei
poteri forti, medi o inesistenti, e si prenderebbe quel
che resta di noi senza neanche lo sforzo di aprire le
mascelle.
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha promesso
una gestione trasparente di questa crisi, «la più
trasparente nella storia della Repubblica». Siccome gli
crediamo, il passo successivo, in assenza di una
maggioranza alternativa credibile, sarà consegnare il
testimone al presidente della Repubblica, che poi
deciderà il percorso migliore per evitare a un Paese in
sofferenza una ulteriore retrocessione, non solo
economica ma anche civile e morale. Al di là delle bugie
e delle cortine fumogene della disinformazione, i
cittadini che ancora votano saranno prima o poi
chiamati a prendere una decisione molto semplice:
scegliere tra un Paese saldamente legato all’Europa,
principi democratici compresi, e un altro tipo di Paese,
inedito, isolato, arrabbiato, che per la prima volta
metterà la prua verso una direzione contraria
all’Occidente, candidandosi a diventare un satellite di
Putin. Non che i patti con i partner europei non possano
e non debbano essere ricontrattati. Ma non è questa la
vera posta in gioco. Il rischio nascosto, la grande
trappola mascherata sotto il velo del “prima gli italiani”,
è il passaggio da un sistema democratico e
indipendente a una nebulosa il cui sole è rappresentato
da una dittatura mal truccata e da una serie di Stati
vassalli che hanno scelto la strada breve di essere
padroni a casa propria, possibilmente senza
opposizioni, impermeabili alla cooperazione civile (in
tema di migranti, e non solo) e senza rapporti di
collaborazione se non con i fratelli separati della
propria galassia.
A giudicare dall’oggi, le elezioni che verranno, quando
verranno, non le vincerà il migliore. Ma il compito di un
giornale, la missione di Repubblica da quando è stata
fondata, non è influenzare né indirizzare il voto libero, e
speriamo consapevole, di ogni italiana e italiano. Il
nostro lavoro, l’impegno che metteremo, sta racchiuso
in una frase di Albert Camus: «Nei tempi bui, resistere è
non consentire menzogne». Vale per l’uomo solo al
comando. Ma anche per i volenterosi promotori di
alleanze temerarie.
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di Stefano Folli
Il Punto
Elezioni e No
La posta in gioco
di Carlo Verdelli
L’editoriale
La strana alleanza
e l’uomo solo al comando
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La grande trappola mascherata
sotto il “prima gli italiani”
è il passaggio da un sistema
democratico a una nebulosa
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Se guardiamo a oggi
le elezioni che verranno,
quando verranno,
non le vincerà il migliore
. Lunedì, 12 agosto 2019 Commenti pagina^27