Internazionale - 19.07.2019

(やまだぃちぅ) #1

America Centrale


uno spazio pratico che riguarda la soprav-
vivenza, l’amore o il maialino di Natale.
Uno spazio dove la quotidianità s’impone
sui simboli della patria; un crocevia e un
luogo di scambio dove chi porta la barca
non chiede mai se sta trasportando conta-
dini, migranti o armi.
La discrezione è l’antidoto migliore in
una zona in cui, secondo la stampa locale,
nell’ultimo anno sono caduti tra i canneti
una decina di “narcoaerei”. Il rumore not-
turno dei Cessna, dei Rockwell o dei jet
che ti volano sopra la testa a luci spente è
frequente qui. A terra gli aerei sono accol-
ti da una rete efficiente di collaboratori
pronta con il combustibile accanto alle
piste clandestine. Quando a marzo la ma-
rina ha localizzato un aereo a pochi chilo-
metri dalla Unión, nella boscaglia c’erano
anche due camion con mille litri di carbu-
rante. Il caso più eclatante risale al dicem-
bre 2018, quando alle 3.30 di mattina un
aereo è atterrato all’aeroporto internazio-
nale di Chetumal. Quando gli addetti alla
sicurezza sono intervenuti, i due piloti
erano già scappati abbandonando sulla
pista un Jet Hawker con una tonnellata e
mezzo di cocaina a bordo.
“Il viavai degli aerei è quotidiano”, mi
spiega l’agente della Unión, che preferi-
sce non dire il suo nome per paura di rap-
presaglie dei suoi superiori. “Da questa
parte della frontiera tutto succede senza
che nessuno faccia niente. Ma i carichi
grossi non passano da qui”. Nel frattem-
po spunta un uomo diretto in Belize con
due casse di birra messicana. “Anche qui
davanti vanno e vengono tranquillamen-
te”, prosegue l’agente indicando lo spazio
in secca del fiume a cinquanta metri
dall’ufficio.
Il doganiere è arrabbiato con l’istituto
per la migrazione e con la vita. Per lui l’au-
mento della criminalità nella zona è colpa
del nuovo presidente del Messico, Andrés
Manuel López Obrador (centrosinistra).
Da quando si è insediato, nel dicembre del
2018, il presidente ha preso di mira l’Inm,
definito dal sottosegretario per la migra-
zione Alejandro Encinas “l’ente più cor-
rotto del paese”. Da allora quasi settanta
funzionari dell’ufficio di Chetumal sono
stati allontanati. In altre località, come a
Tapachula, nello stato del Chiapas, la cor-
ruzione era così forte che il governo ha
chiuso il centro per i migranti, lasciando
centinaia di persone in un limbo.
“Ci hanno umiliato e offeso. Hanno
allontanato senza spiegazioni molti di noi
e non va bene”, dice l’agente. Rimpiange
l’epoca della mano dura, quando faceva-


no “operazioni a sorpresa” e retate per
arrestare i migranti centroamericani. Ad
aprile e a maggio del 2019 le espulsioni
dei migranti sono aumentate del 68 per
cento rispetto a quelle avvenute nello
stesso periodo del 2018 durante il gover-
no di Enrique Peña Nieto (conservatore).
Ma anche se le cifre confermano che
l’epoca della mano dura è tornata, l’agen-
te denuncia la mancanza di controlli alla
frontiera, la politica delle “porte aperte”
di López Obrador e l’arrivo delle carova-
ne di migranti dall’America Centrale che,
dice, “diffondono virus e malattie dove
passano”.

Immagini contrastanti
Dall’altra parte del fiume, dal lato del Be-
lize, due grossi agenti neri, senza camicia,
ridono guardando una serie tv nel casotto
della dogana di Blue Creek. È un prefab-
bricato austero con un tavolo, un televiso-
re e una poltrona con la stoffa
rovinata. La pistola e il teleco-
mando sono poggiati sul brac-
ciolo. “Se vuole restare nella
zona dei mennoniti let’s go, l e t’s
go, vada, vada”, grida uno di loro
mischiando le lingue e agitando le mani.
Senza distogliere lo sguardo dallo scher-
mo, l’uomo apre la porta su un nuovo
mondo. Davanti a me appare una della
immagini più contrastanti della frontiera:
da una parte c’è La Unión, l’ultimo paese
del Messico, caotico, cattolico, rurale e
sporco, dove si lavora la canna da zucche-
ro e si beve birra come se fosse acqua;
dall’altra c’è Blue Creek, il primo paese
del Belize, conservatore, efficiente e pro-
testante, dove si parla tedesco antico ed è
impossibile trovare una goccia d’alcol.
I mennoniti, che vivono sparsi in Ca-
nada, Messico, Paraguay e Bolivia, seguo-
no una variante protestante del cristiane-
simo nata nel cinquecento. Oggi sono più
di un milione in tutta l’America Latina.
Dopo il 1536, in seguito alla rottura con la
chiesa cattolica e alla riforma luterana,
furono perseguitati ed emigrarono dalla

Svizzera, dalla Germania e dalla Polonia
in paesi come Francia, Russia e Canada.
Blue Creek, lungo venti chilometri da
una punta all’altra, non è un paese vero e
proprio. È piuttosto una comunità di otto-
cento famiglie mennonite che vivono in
case in stile statunitense, con il porticato
e il tetto spiovente, costruite tra i campi
perfettamente coltivati e collegate tra loro
grazie a strade asfaltate e a un’illumina-
zione impeccabile. Non c’è gente che
cammina, non ci sono cartacce per terra
né persone ubriache, non c’è una piazza,
un ufficio del comune o un bar. Si vedono
solo macelli di pollame, risaie, piantagio-
ni di fagioli, palma africana e mogano a
perdita d’occhio. Nell’unico negozio, che
funziona anche come banca e centro mu-
nicipale, gli abitanti – tutti con la pelle
bianchissima – e qualche lavoratore del
Salvador si salutano quando s’incrociano.
Blue Creek è gemellato con altre due co-
munità mennonite, Shipyard
e Spanish Lookout, dove vivono
tremila famiglie ultraconserva-
trici: hanno rinunciato all’elet-
tricità e si muovono su carri trai-
nati da cavalli.
Poche frontiere al mondo hanno lo
stesso impatto visivo di quella tra Messico
e Stati Uniti. A Ciudad Juárez e nella sua
vicina statunitense El Paso, a Tijuana e a
San Diego le case di lamiera si ammassa-
no davanti a campi da golf tracciati con la
squadra e il righello. A quasi quattromila
chilometri da quella frontiera, lungo il
confine che separa La Unión da Blue
Creek, la scena si ripete: uno dei luoghi
più abbandonati del Messico sorge davan-
ti a uno dei più efficienti del mondo. In
quest’angolo remoto i lavoratori messica-
ni scappano tra le risaie appena ci vedono
arrivare. Ci scambiano per la polizia mi-
gratoria del Belize che vuole arrestarli.
I mennoniti arrivarono qui quasi ses-
sant’anni fa da Chihuahua, in Messico,
senza un soldo. Il governo del Belize,
quando ancora si chiamava Honduras
britannico, gli concesse quasi 35mila et-
tari di campi coperti di manghi, alberi di
ceiba e di mogano nell’estremo del paese.
In cambio della terra e dell’autonomia,
loro si misero a lavorare duramente e og-
gi sono il motore alimentare del paese. I
mennoniti producono il 95 per cento del
pollo che si mangia in Belize e l’80 per
cento del mais, del riso, dei fagioli e del
sorgo. Godono di un’indipendenza reli-
giosa e fiscale, e i loro bambini fanno le-
zione in tedesco medievale. Hanno anche
un loro sistema sanitario, di polizia, una
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