Un boss malato per amico
Nei giorni seguenti si aggravò l’espansione del coronavirus in tutta Italia e divenne la fonte
principale di preoccupazione per tutti, detenuti ed impiegati del reparto.
Infatti tutti temevamo l’arrivo del virus in ospedale e sapevamo che se fosse giunto fin nel nostro
reparto non si sarebbe salvato nessuno dei ricoverati, e personalmente ritenevo che uno dei primi a
lasciarci le penne sarei stato proprio io perché oggettivamente ero uno dei soggetti più deboli in
quel periodo.
C’era soltanto un altro detenuto in condizioni peggiori delle mie ed un giorno lo conobbi e
diventammo amici perché fui trasferito dalla cella singola a quella in comune con lui.
Aveva poco più di sessant’anni ma ne dimostrava molti di più, era nativo della provincia nord di
Salerno al confine con Napoli, e mi raccontò il dramma che stava vivendo: la moglie era morta da
un paio di mesi e non gli fu possibile starle vicino nel giorno della sua dipartita - preannunciato
ampiamente dai medici visto che aveva sofferto di una grave forma tumorale - in quanto il
Tribunale di Sorveglianza non glielo aveva concesso perché in passato era stato un boss e
soprattutto perché di recente era stato arrestato per evasione dai domiciliari.
Le sue stesse condizioni di salute erano piuttosto gravi, infatti il boss era stato operato da pochi
mesi per asportazione di un tumore intestinale, e negli anni aveva subito anche un paio di infarti.
Sin dalle prime ore di coabitazione nella cella mi raccontò tutti i suoi drammi, ed io lo ascoltai con
interesse e disponibilità.
Il tumore lo avevano scoperto i medici per caso pochi mesi prima al carcere di Salerno ove fu
trasferito dopo l’arresto per evasione dagli arresti domiciliari. Appena i sanitari lo visitarono
capirono immediatamente che si trattava di un detenuto in serie difficoltà di salute e disposero
subito il trasferimento in ospedale.
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